Il silenzio del Vajont.

Per non dimenticare.

Fortogna, 9 Ottobre 2016



Il Vajont sono due tragedie, e sarebbe ora di distinguerle.
La prima tragedia è quella della Diga. Tragedia vera e immane per il dolore pubblico e privato che ha generato, per le inescusabili responsabilità che sottende, per l’evanescenza delle istituzioni coinvolte, per l’irrisorietà dei risarcimenti. Per non dire della avidità degli interessi privati che l’hanno generata. È una tragedia sotto i nostri occhi da cinquant’anni, circa la quale è stato detto tutto o quasi tutto. Quello che manca, se manca, non potrà di certo modificare il giudizio storico di quanto è accaduto.

Fortogna,9 Ottobre 2016


Il fatto è che la tragedia del Vajont ha generato un’altra tragedia, dove noi siamo carnefici e vittime allo stesso tempo. Una tragedia, anche questa, evitabile e inescusabile. Anche questa collettiva, con l’aggravante che sembra non finire mai. E’ la tragedia della retorica e del dolore usati come arma contundente per una narrazione del territorio bellunese come luogo minore, marginale, oppresso, defraudato quando non deriso. Ci sono state le Vittime del Vajont? Ebbene, anche noi siamo vittime, pur se in un altro modo: vittime dell’economia, della storia, della politica, vittime del grande su noi che siamo piccoli. 

Non che questo non sia stato vero. Lo è, in parte, anche oggi. Ma spesso la tragedia del Vajont è stata usata per ricostruire il bellunese come luogo di periferia a credito con lo Stato, perennemente in stato di bisogno, sempre defraudato. Se il bellunese oggi è un luogo di acrimonia diffusa – non passa giorno che qualcuno, la politica in primis, non si lamenti di qualcun altro – lo si deve soprattutto al brodo culturale che la Tragedia del Vajont ha generato. Non era un esito scontato. 

Complice la politica, soprattutto quella “grande”, che quando viene nel bellunese corre a rendere omaggio alle Vittime del Vajont. É sempre giusto rendere omaggio ai morti, ma alcuni omaggi contengono una overdose di retorica del dolore della quale faremmo bene a liberarci. Essi omaggiano il territorio bellunese come eterna vittima, e al bellunese, oramai, piace sentirsi vittima. 

La diga, 9 Ottobre 2016

Complice certa cultura locale che sulla tragedia del Vajont, e sulla propria presunta estraneità sociale, culturale e financo morale, ha costruito miti di libertà e di riscatto. Il Vajont come il male assoluto degli altri, in contrapposizione ad una propria purezza tenace e garibaldina. Cosa di meglio, allora, ad ogni anniversario, del reggere la bandiera dei giusti defraudati, dei preveggenti inascoltati, dei miseri derelitti?
Oggi, trascorsi cinquant’anni, bisognerebbe farla finita con la retorica del dolore che ci fa vittime di continuo, usandoci come strumenti per un altro fine. Basta con il Vajont come palcoscenico, soprattutto politico, ma non solo, dove si sale ogni 9 ottobre a far comizi. Dobbiamo andare oltre. E andare oltre non vuol dire dimenticare, ma avere il coraggio di scrivere un’altra storia, migliore di quella che abbiamo alle spalle. Non è con la cultura del dolore e della strumentalizzazione che si ricostruisce qualcosa di duraturo. Elaboriamolo, il lutto del Vajont, gli strumenti per farcene una ragione storica, politica e sociale li abbiamo.
Poi basta. 
Poi, almeno per una volta, quando arriva il 9 ottobre, restiamo in silenzio.

Vincenzo Agostini, Ottobre 2013

Longarone, 9 Ottobre 2016

Ho visto come vivono gli angeli, 2009

Avevo preparato un super mega articolo introduttivo, ma poi ho pensato: “Non servono tante parole”…..

Solo una piccola introduzione!

In memoria di: Alcea, il cane che ha salvato la vita di mio figlio.

Guarda il video, clicca quì

Sono passati già 12 anni, dall’inizio dell’avventura e 10 dal mio primissimo “lavoro serio “
Ho visto come vivono gli angeli è un’opera che ha segnato profondamente la mia vita sia fotografica che emotiva. 

Con l’introduzione di Matteo caccia (speaker radiofonico di successo) al quale va detto però che ho “rubato “ un pezzo di trasmissione radiofonica di quel periodo. Oggi dopo 10 anni, mi rendo conto che un video di 11 minuti è “fuori moda” a causa dei tempi sempre più frenetici che la vita ci impone ma …. io lo guarderei davvero!!!

Un fantastico messaggio iniziale, il racconto di una squadra fantastica e in fine una tragedia annunciata ( citazione da sangue e cemento).

L’intervista all’autore: quì

11 anni dopo il sisma, 9 anni dopo la mia visita alle zone colpite, trovo la forza di mettere mano alle foto dell’epoca. L’Aquila è morta? audiovisivo fotografico attualmente in lavorazione.

Ciao Alex,Lettera a Zanardi.

 

Ciao Alex, tu non sai chi sono ma se ti prendi cinque minuti per arrivare in fondo a questa lettera ti prometto che te lo dico chi sono.

Volevo dirti che ho letto quasi tutti i tuoi libri, e tra i tanti ho apprezzato molto l’ultimo, in particolare quel capitolo dove citi Cesare Cremonini…

ma scusami Alex non siamo qui per parlare di te!

A dire il vero io questa lettera non volevo nemmeno scriverla e se non fosse stato per Silvester, che mi ha chiesto ripetutamente di parlare delle emozioni che ho provato domenica, io non sarei qui a buttare giù questo testo!

Ma son sincero, io preferisco parlarti di ciò che quella domenica mi ha insegnato; perché Alex tu devi sapere che io fino a qualche tempo fa, volevo essere Batman, anche perché io e lui abbiamo molte cose in comune! 

Non ci credi? Te lo dimostro:

Sia io che lui abbiamo preso le nostre paure e invece di farle “vincere “ ne abbiamo fatto un punto di partenza per diventare invincibili (o quasi).

Come dici non ti basta?

Allora procedo:

anche io come lui, ho una bat caverna (ti metto le foto così mi credi) dalla quale ogni giorno, organizziamo la nostra vita per dare il massimo di noi stessi per i valori in cui crediamo,

anche io investo grossa parte dei miei averi in “gadget tecnologici “ che utilizzo quotidianamente nella lotta contro il “brutto “ di questa società moderna

e infine non ci crederai, ma circa due anni fa, ho addirittura acquistato una “bat mobile “ perché io ripeto, fino a qualche mese fa ci tenevo un sacco a essere Batman!

Ma poi ho capito una cosa, anzi come ti dicevo l’ho imparata proprio domenica:

Essere Batman, comporta, tra le altre, una grande controindicazione, ti espone, ti mette in vista e di conseguenza più sei Batman e più è facile che incontri uno/a degli innumerevoli Joker di cui il mondo, ahimè è pieno ed è per questo che le emozioni che ho provato domenica non le esterno,

ma stanne pur certo Alex, che sono emozioni forti e uniche.

Ecco, questo è quello che ho imparato domenica.. 

Ora ti lascio, ma non prima di mantenere la promessa iniziale, perché se sei arrivato fino a qui a leggere è giusto che io la mantenga, ti metto un’altra mia foto così se per caso ci dovessimo mai incontrare, magari anche tu mi riconosci, perché stanne certo, io se ti incontrassi ti riconoscerei:

In questa foto puoi vedere: Giovanni, Marika e Andry…. 

poi c’è anche “quell’altro “,

Ci sono io, come dici non mi vedi?

TranquilloAlex, ci sono sono quello che vuole essere Robin…

GRAZIE.

Nessuno vuole essere Robin, Cesare Cremonini

Un panino che ti cambia la vita

(Ma anche lo Spritz di Misano non scherza)

Un panino e un the freddo grazie!

E’ iniziata così, chi l’avrebbe mai detto….

Per la precisione un panino, un the freddo e qualche  foto si sono trasformati in una storia di valori antichi, condivisi e coltivati.

Lui, big Gio, mi disse: “lascia che almeno ti offra il pranzo, visto che ci regali le foto”.

La mia risposta fu laconica: “no, non posso!!” Quasi scocciato risposi!, 

“ se accetto anche solo il pranzo, vorrebbe dire che sto facendo lucro sulle mie immagini e questo non è possibile perché ho appena firmato una liberatoria dove dichiaravo che le foto non erano in vendita e sopratutto, cosa più importante andrebbe contro a i miei principi morali di usare il mio talento (che parolone, ma si sa parolone grosse fanno sempre effetto) per fini non umanitari ma di lucro”

E’ iniziata così una delle storie di vita più belle che posso raccontare….ma sinceramente questa è un’altra storia e non sono qui a parlare di questo…

Qualche giorno fa ho ricevuto una foto, da un uomo, un grande uomo che è anche un GRANDISSIMO padre, di un ragazzo eccezionale, inutile dire che immediatamente mi sentii onorato di avere ricevuto quello scatto, talmente onorato che, ci fu il rischio di montarsi la testa, ecco perché ho dovuto (anzi voluto) aspettare qualche giorno prima di rispondere al suo messaggio, nei giorni intercorsi tra l’arrivo del messaggio e la mia risposta ho viaggiato con la fantasia, tra chissà se ho capito bene il significato dello scatto e che onore l’ha mandata a me….

Poi ho deciso! Gli scrivo, lo ringrazio e chiedo chiarimenti!

Era proprio come immaginavo, il ragazzo, quel ragazzo così speciale, aveva la fidanzata!!!!!

E suo padre,  UN GRANDE PADRE, aveva voluto condividere la notizia con me!!!

Ricordo che gli chiesi scusa, mentre domandavo se avevo capito bene sul fatto, gli chiesi scusa perché a essere così “curioso” potevo sembrare invadente, lui mi disse: 

“Fausto non sei invadente per niente, sappi che questa foto l’ho condivisa con le persone speciali per me e Andri (nome di fantasia)

Ecco, la storia in breve è questa, i dettagli intimi me li tengo nel cuore.

Ora mi chiedo, se avessi rinunciato anche al più piccolo dei miei valori, se avessi accettato quel panino, sarebbe sfociata la grande amicizia con Gio?

E di conseguenza avrei mai conosciuto, quel grande uomo la sua stupenda famiglia? Avrei mai potuto “attingere” alla superba forza di Andry per averlo come esempio nei miei momenti bui? 

A me piace pensare di no! 

Se rinunciassi a ciò che sono e ai miei valori, non sarei quella persona che si merita di ricevere certe foto…..

Sia chiaro, non mi sento e non mi sentirò mai nessuno, migliore di altri o superiore, ma inizio a pensare che se certe cose mi accadono, forse e dico forse, qualche merito lo ho e forse qualcosa di buono l’ ho fatto!

Alla fine, quel panino a me la vita me l’ha cambiata, e poco tempo dopo, a Misano anche uno Spritz lo ha fatto…perché come diceva Galileo Galilei: 

“ Anche negli oggetti “volgari” vi è la possibilità di trovare traccia dell’esistenza di Dio!” 

Ma questa è un’altra storia, che magari un giorno racconterò…

Per ragioni di privacy questo è solo un dettaglio dell’immagine originale

Non so come (ma ho una vaga idea), non so quando ma so che un giorno, non molto lontano, mi “sdebiterò” per tutto il bene che mi hai fatto!

Festa della birra, Scurano (PR)

In questo articolo troverete qualche scatto di alcune serate, magari un giorno scriverò anche qualcosa, per ora vi ringrazio della visita e metto solo foto.

Vi invito a dare un’occhiata al programma quì

Il giorno di Luciano

LUCIANO
Indossava un tutore, alla mano destra, quella che sarebbe servita di li a breve per firmare, firmare quei documenti che nessuno dovrebbe trovarsi a leggere e sottoscrivere nella vita; si perché di scelte di vita si trattava, vita di qualcun’altro.

Così all’improvviso Luciano (nome di fantasia) si era ritrovato a dover prendere decisioni cosi importanti, lui che al massimo aveva deciso che sugo mettere nei fusilli, oggi doveva chiedersi se tentare di salvare la vita del padre con un gesto estremo o se risparmiare al padre stesso a tutto il resto della famiglia uno proseguimento di stenti e di fatiche.

Luciano aveva le idee abbastanza chiare, sapeva già cosa avrebbe deciso, cosa avrebbe detto ai dottori non aveva mai avuto le idee cosi chiare in vita sua, fino a quando arrivò in reparto, si perché in quel reparto al 5° piano dell’ ospedale, la vita era assai diversa da come la immaginava lui o almeno era una vita “sconosciuta” ai più.

In quel lunghissimo corridoio del 5° piano, che appariva assai più lungo di quello che era in realtà, in alto sopra la porta campeggiava un enorme orologio digitale che alternava data e ora a cadenza quasi logorroica, quasi volesse porre l’accento su ogni singolo minuto passato in questo luogo, a Luciano pareva di sentirla, quella voce che continuava a ripetere “lo vedi quanto sei fortunato a non dover vivere qui dentro?”.

Nel frattempo la vita de decine di persone scorreva lenta e inesorabile in un’intreccio di dolore e speranze, un’anziana moglie spingeva una carrozzina con a “bordo” un vecchio marito,

personaggi che sembravano essere usciti dai cartoni animati dei Simpson dialogavano su quali medicinali ingerire mancava solo la classica frase “libera i cani..” il tutto nell’andirivieni di infermiere indaffarate in mille cose, quasi sembravano formiche operaie durante la stagione dell’approvvigionamento in vista dell’inverno; la più anziana di esse che curava con fare materno il padre di Luciano.

Bastarono qui pochi, ma lunghissimi minuti a Luciano per cambiare idea, perché in quei cinquanta minuti egli aveva apprezzato la vita come non mai prima, decise allora di tentare di “donare” al proprio padre un’ulteriore possibilità, consapevole che di li avanti la vita di entrambi e di molte altre persone sarebbe stata più dura , ma comunque degna di essere vissuta fino all’ultimo e in ogni modo.

Si tolse il tutore, firmò le carte e tornò ad osservare le vite e i momenti che scorrevano inesorabili in un continuo alternarsi di dolore, speranze attese e a volte disilluse.

Poi, trascorse una manciata di ore a Luciano  venne posto un quesito assai più grave, assai più importante e “pesante” a Luciano venne chiesto di decidere tra una fievole speranza e un’ inesorabile quanto devastante certezza… ma questa è un’ altra storia, cosa abbia deciso e perché, resterà per sempre un segreto, nascosto nell’angolo più remoto del suo cuore sommerso da centinaia di ricordi così brutti che non è giusto raccontare.

Furono solo poche ore di quel giorno, poche se pensiamo al contesto di una vita, ma vi assicuro furono ore che la vita, la cambiano davvero.

A mio padre.

19/9/1937 – 16/3/2018

Io NON sono un fotografo

 

Il fotografo professionista pratica la fotografia come professione (per lavoro) seguendo principi etici e legali, volti a soddisfare il committente; il fotoamatore o “fotografo dilettante” invece pratica la fotografia per diletto, per svago, per divertimento, per passione (non a scopo di lucro), molto spesso per documentare o/e per ricordare o produrre ricordi.

Questa in sintesi la descrizione della parola fotografo.Tratto da Wikipedia

Ecco perché io non sono un fotografo, ho provato anche a cercare la definizione sul vocabolario.. Fotografo

Ma niente io non sono un fotografo!

Lei ci crede a questo? A un fuoco inestinguibile che ti divora eternamente.
(Dal film Amadeus)

 

Il vero fotografo è, secondo me,  colui che oltre a essere appassionato di fotografia, passa buona parte del suo tempo a osservare il lavoro di altri fotografi attraverso mostre, libri, convention  e quant’altro è colui che studia la tecnica e magari sa con perfezione certosina come posizionare le luci in uno studio o che posa fare assumere ai propri soggetti è colui che studia la fotografia in tutte le sue forme e in tutti i modi possibili, iscrivendosi magari a una quantità smisurata di canali video per vedere in anteprima l’ultimo tutorial sulla sua materia preferita, la fotografia in tutte le sue sfaccettature appunto.

 

Si può avere un grande incendio nella propria anima, eppure nessuno è mai venuto a scaldarsi. I passanti vedono solo un filo di fumo dal camino e continuano sulla loro strada.
(Vincent Van Gogh)

 

Oppure è colui che è disposto a sgomitare nella ressa tra colleghi per ottenere l’inquadratura migliore e infine è sicuramente colui che sa vendere in primis se stesso e di conseguenza il proprio prodotto.

Io non sono nulla di tutto questo!

Se ti aspetti da me che sappia dirti quale è l’attrezzo migliore, la migliore ottica o l’ultimo ritrovato in materia di luci da studio allora sei nel posto sbagliato.

Io al massimo posso invitarti a leggere questo: Imparare a fotografare

 

L’amore è come un fuoco all’aperto. Può essere appiccato rapidamente, e appena acceso emette un sacco di calore, ma si consuma rapidamente. Perché dia un calore durevole e stabile (con deliziose fiammate di calore intenso di tanto in tanto), devi curare il fuoco con attenzione.
(Molleen Matsumura)

Io di certo saprò insegnarti a come ringraziare ogni volta ogni tuo singolo soggetto, perché sono fermamente convinto che anche il migliore dei fotografi non sarebbe nulla senza la disponibilità (mai scontata) dei propri soggetti a lasciarsi riprendere.

Io sono “solo” una semplice persona, con un trascorso alle spalle (come tutti del resto) un trascorso fatto di delusioni ferite e cicatrici nel cuore, schiavo di un passato che mi rende umile e ferito allo stesso tempo, ferite alle quali però non voglio soccombere e che anzi mi fanno gridare vendetta!

Una vendetta che cerco di mettere con tutto me stesso nello scattare immagini!

Una vendetta che si compie ogni qual volta riesco a creare uno scatto che “combatte” o è agli antipodi di tutto il dolore che ho dentro.

Ecco io sono IO e non sono certamente un fotografo.

Tieni dentro di te un piccolo fuoco che brucia; per quanto piccolo, per quanto nascosto.
(Cormac McCarthy)

 

 

 

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IMPARARE A FOTOGRAFARE 

Testo  Michele Vacchiano © 01/2000

Autorizzazione alla pubblicazione richiesta tramite e-mail
Immagini di Fausto Accorsi

Venerdì sera diversi

 

Imparare a fotografare. Come? Scuole, corsi, attenta lettura di libri e riviste? 

Può darsi, ma certamente non basta. 

Alcuni corsi a cui ho assistito mi hanno convinto di essere stati organizzati al solo scopo di spillare denaro agli iscritti. 

Che dopo ne escono più ignoranti e confusi di prima. 

Ho visto troppi “docenti” tanto improvvisati quanto incapaci di trasmettere qualcosa di diverso dalle solite nozioncine tecniche. 

Ma la gente che si iscrive a un corso di fotografia non vuole sentirsi dire quello che già legge (con una spesa di molto inferiore) sulle riviste e sui manuali per dilettanti. 

Per quanto riguarda le riviste, diventa difficile per il principiante distinguere tra chi lavora per la crescita della fotografia e chi rappresenta soltanto uno strumento del mercato. 

La rivista che tutte le estati pubblica l’articoletto su come fotografare sulla spiaggia e per il resto dell’anno non si solleva molto al di sopra di questo livello non fa vera informazione. 

Insegnare alla gente che cos’è uno zoom o come si ficca un soggetto all’incrocio dei terzi significa solo rimasticare le solite cazzate (mi assumo ogni responsabilità per questo termine, ma è ancora poco), che si ripetono da un secolo e mezzo e si sono acquisite senza spirito critico. Non serve a niente se non a far soldi senza impegnare il cervello. 

E allora come si fa a imparare davvero? Ci sono segreti, trucchi del mestiere? 

No, nessun segreto, nessun trucco. Smettiamola con queste manfrine. 

Smettetela, giovani amici che iniziate a percorrere i sentieri della fotografia, di chiedermi consiglio sull’acquisto di un’attrezzatura “professionale”. 

Non esistono macchine professionali, la professionalità sta in chi le adopera. Una Nikon F5 in mano a un dilettante che la usa al cinque per cento delle sue possibilità tecniche è assai meno professionale della Minox che mi porto dietro io sul ghiacciaio. E su questo non mette conto spendere ulteriori parole. 

Quello che bisogna fare è cambiare mentalità, smettere per almeno tre mesi di leggere alcunché, smettere di partecipare ai newsgroup, gettare nel bidone della carta da riciclo tutti i pieghevoli pubblicitari su questo o quel modello raccolti in anni e anni di paziente frequentazione dei negozi specializzati, che ormai ci odiano perché abbiamo troppo rotto le scatole nel chiedere informazioni e caratteristiche tecniche senza comperare mai niente. 

E finalmente uscire. 

Uscire di casa, ma anche da se stessi; alzare le natiche dalla sedia girevole e staccare gli occhi dallo schermo del computer. Piantarla una buona volta di vivere in modo virtuale e imparare a vivere sul serio. 

Che c’entra questo con la fotografia? C’entra moltissimo. Perché quando decidi di vivere decidi anche di riappropriarti dei tuoi sensi. Vista compresa, ma non solo. 

Lasciate a casa la macchina fotografica e prima di tutto imparate a guardare. Con gli occhi, non attraverso un mirino. 

Che cosa fate al mattino davanti allo specchio? 

Vi limitate a farvi la barba in fretta pensando (già irritati) agli impegni della giornata, o siete capaci di godere la carezza ruvida del rasoio, che passando sul viso traccia strade regolari attraverso la schiuma soffice e candida come fa lo spartineve nelle giornate limpide di gennaio? Trangugiate in fretta un caffè bollente o uno squallido cappuccino al bar sotto casa, oppure siete capaci di far correre la fantasia sulle spire del fumo che si solleva pigro da una scodella di latte o da una tazza di tè fragrante e profumato? Nel frattempo, sapete godervi l’essere ancora svestiti, il profumo della vostra pelle dopo la doccia, il tocco dei piedi nudi sul pavimento? 

Quand’è stata l’ultima volta che – uscendo di casa al mattino presto – avete sollevato lo sguardo al cielo per vedere se c’era la luna? 

E soprattutto, quanti di voi sanno in quale fase si trova la luna adesso? Rispondete in cinque secondi senza guardare il calendario. 

Ma come pretendete di fotografare se prima non imparate a osservare, e soprattutto a godere di ciò che osservate? 

Pensate alla semplice percezione del caldo e del freddo. Sembra che oggi la gente abbia perso la capacità di usare la propria pelle come strumento di ricezione degli stimoli. 

D’inverno tiene il riscaldamento acceso e quando esce si intabarra in pellicce e montoni al solo scopo di mantenere costante la temperatura corporea. D’estate si lamenta dell’afa e sembra non poter fare a meno dell’aria condizionata. Vorrebbero vivere in uno di quei paradisi tropicali dove regna l’eterna primavera. 

Sai che barba! D’inverno fa freddo. Okay, e allora? Il nostro corpo È FATTO per sentire il caldo e il freddo e possiede ottimi meccanismi di termoregolazione. Chi ha provato che cosa vuol dire il freddo (il VERO freddo, signori miei, non quello che può patire il cittadino-bene) non si fa tutte queste paranoie. Io sono uno che in città si veste molto poco. Esco, fa freddo. Okay, ma io so che tra pochi minuti salirò su un autobus riscaldato, e dopo un tragitto più o meno lungo sarò in un ufficio riscaldato. Nel breve percorso intermedio sentirò il freddo sulla pelle. Punto e basta. Non mi ammalerò certo per questo, anzi, avrò più probabilità di ammalarmi sull’autobus che non camminando per strada. 

Accettate di percepire il caldo e il freddo sulla vostra pelle, e invece di lamentarvene usate queste sensazioni per capire che tempo fa, per entrare in contatto con l’ambiente, con l’aria, col vento e le nuvole. Siete fatti di atomi e molecole, la stessa materia che forma le stelle; l’universo fa parte di voi come voi fate parte di lui. Perché rifiutarlo o averne paura? 

Nella bella stagione, uscite quando piove. Perché usare l’ombrello? Perché trovate piacevole la pioggia artificiale della vostra doccia e fuggite la pioggia del cielo? Se non gettate via l’ombrello non saprete mai quant’è divertente sentire i goccioloni del temporale che picchiettano sulla pelle, suscitando crepitii e sciacquii che cambiano di tono a seconda del punto colpito. Se non siete capaci di sedervi accanto a un ruscello per ascoltare quante voci ha, per indovinare in quanto tempo quel ramo portato dalla corrente arriverà davanti a voi, non riuscirete mai a fotografare davvero. 

Perché fotografare non significa riprodurre la realtà, ma interpretarla. 

Significa tradurre il mondo filtrandolo attraverso la propria esperienza, la propria capacità di elaborare i dati sensoriali, la propria fantasia. 

Fotografare vuol dire illustrare non il soggetto, ma il rapporto sottile (e dialettico) che si è saputo instaurare con lui. 

Comunicare sensazioni, l’odore dell’aria, la voce del vento. A volte fotografare significa saper prescindere dal soggetto per rappresentare un sogno. 

Non lo si può fare se si è smesso di sognare. 

E non lo si può fare quando il proprio mondo interiore è inesorabilmente, insopportabilmente vuoto. 

Testo  Michele Vacchiano © 01/2000 

Pensavo fossi stronzo…

Pensavo fossi uno stronzo…..

Tutti i nomi utilizzati in questo racconto sono nomi di fantasia, il racconto è basato su una storia vera.
Ringrazio Luciano, che ha voluto passare con me un pomeriggio intero di chiacchiere durante il quale mi ha fatto partecipe anche di questo racconto.

Era la sera di san Valentino, circa le 22.00, avevamo appena finito di cenare con la pizza presa ad asporto nel vicino locale, Rebecca mia figlia di undici anni esordisce con volto quasi scuro di delusione:

“Papà ma sei proprio cattivo, è san Valentino e non hai preso La Rosa alla mamma!”

La guardo negli occhi, sorrido e le parlo:

“Vedi Rebecca, voglio raccontarti due cose, la prima che devi sapere riguarda un’aneddoto accaduto due giorni fa, erano circa le 23 del 12 Febbraio, non era certo san Valentino, le farmacie come i negozi a quell’ora erano chiusi naturalmente, io e mamma eravamo già a letto da un’ora almeno ma, un terribile mal di testa che aveva colpito stranamente entrambi non ci lasciava dormire, fu allora che decisi di recarmi in cucina, per cercare un’analgesico che potesse dare sollievo a entrambi, chiesi a tua madre lo vuoi anche tu? Lo chiesi nonostante sapessi già che la risposta sarebbe stata si, ok! Risposi stai comoda te lo porto io!

Arrivato in cucina, apro la cassetta dei medicinali prendo la scatola e ahimè mi accorgo che vi è al suo interno solo una pastiglia, l’ultima, non ti nascondo figlia mia che subito ho imprecato!

Ma poi dopo un solo secondo, mi è uscito il sorriso, ho preso la pastiglia, un bicchiere d’acqua e facendo le scale i mie pensieri erano felici, non so perché nonostante fosse solo il 12 di Febbraio, mentre salivo le scale, mi venne in mente la frase buia san Valentino…… arrivato in camera, diedi l’acqua e la pastiglia alla mamma e alla sua richiesta, tu l’hai già presa? Risposi si, l’ho presa giù di sotto. Inutile dirti che dopo pochi minuti, circa quaranta  a dire il vero l’analgesico iniziò il suo effetto e la mamma si addormentò, mentre la mia nottata fu totalmente diversa, ma non è quello che conta……”.

Quello che sto cercando di dirti Rebecca è che:

“Non ho bisogno che sia un calendario a dirmi quando è la festa dell’amore, non ho bisogno di una rosa per sapere quando e quanto sono\siamo amati e non ho bisogno nemmeno di esternare con le parole, quali e quante azioni compiamo ogni giorno in nome dell’amore, tanto è che la mamma non ha mai saputo che quella era l’ultima pastiglia perché il giorno dopo, dopo essere stato in farmacia, mi sono affrettato a sostituire la scatola vuota prima che lei se ne accorgesse, perché Rebecca devi sapere che per ciò che mi riguarda, decido io quando, come, quanto e chi amare e lo faccio ogni giorno non solo il quattordici di Febbraio!”

Lei mi guarda e tutto a un tratto il suo viso da scuro diventa luminoso e esclama senza nemmeno pensarci tanto:
“Papà, pensavo fossi stronzo, ma mi sbagliavo! Ma mi hai detto che dovevi raccontarti due aneddoti e questo è solo uno, l’altro quale è?”
Le sorrido, mentre però inizio a recitare la parte dell’arrabbiato:
“ah si Rebecca, c’è un’altra cosa che devi sapere ma ricordati che alla fine del discorso ti devo sgridare;

l’altra cosa che devi sapere è che, io questa sera avevo in tasca solo 60€ in contanti mentre i bancomat li aveva la mamma, cosi mi sono trovato a scegliere tra se comprare 2\3 rose solo per la mamma o fare qualcosa di, secondo me, più profondo e duraturo di una rosa che tra 2\3 giorni sfiorirà, così ho scelto, ho scelto di fare qualcosa per tutte le persone che amo non solo per una, ho scelto di fare riposare la mamma, di sollevare te e tuo fratello dal vostro incarico serale ho scelto di scrivere un messaggio a tua sorella per farle sentire considerata…… è ho compiuto un’azione che unisse tutte queste cose in un unico gesto, banale ma carico di significato!”

Lei stranita: “E quale sarebbe questo gesto?”
Sorrido! E le chiedo:
“Hai presente le pizze che hai mangiato questa sera?
Avete dovuto apparecchiare? Mamma ha dovuto cucinare?…………..buon san Valentino!”
“Buon san Valentino papà, ma perché mi devi sgridare? Ti prego non farlo, stronzo mi è scappato!”
No Rebecca, non ti sgrido per lo stronzo….. ma bensì perché ti sei fermata alle apparenze………

Tratto da una storia vera.

Questa sera il Drifting “non basta”

Ventitré anni, erano ventitré anni che non accadeva.

Non me lo ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta ricordo solo che ventitré anni sono passati di sicuro, ma questa sera è successo, sono andato a fare spesa da solo, ho preso il carrello ma senza usare la monetina perché io ho il portachiavi a forma di soldo, perché io sono razzista, o almeno così dicono, e il soldino alla fine della spesa mica lo voglio dare all’ extracomunitario di turno che mi aspetta nel parcheggio, l’ho preso e è stato anche divertente correre nella neve fresca appena caduta simulando le sbandate del Drifting, mica avrei potuto immaginare che di li a poco il mondo mi sarebbe crollato addosso.

Entro nel supermercato, accendo il telefono, apro Inote, si perché i tecnologici la lista della spesa la fanno col pc e poi la condividono e subito mi pervade una strana sensazione, non ci faccio caso e mi dirigo verso la corsia degli animali, perché la roba più pesante la devo mettere sotto, spingo a fatica il carrello con una mano mentre nell’ altra reggo il cellulare e di nuovo quella sensazione, arrivo a latticini, si perché la roba che si schiaccia la devo mettere sopra e mi cade l’occhio sulla corsia delle cianfrusaglie ed è li che si ripresenta quella sensazione ma stavolta capisco, capisco e sto male, mi manca, solitamente lei fa spesa, spinge il carrello con meno fatica, si perché lei non è tecnologica e la lista della spesa la usa di carta, anzi, a pensarci bene non l’ho mai vista con la lista della spesa, perché non sarà tecnologica ma quando c’è da curare la casa e la famiglia ha una memoria di ferro e una forza d’acciaio;
mentre lei fa la spesa io ho sempre il tempo di controllare tra le cianfrusaglie l’ultimo tipo di cacciavite, il nuovo set da ufficio (ne avrò presi 50 e non ho nemmeno un’ufficio) o magari qualche accroccrio che può tornarmi utile in fotografia, ma questa sera no, non posso, non ho tempo perché altrimenti nessuno spinge il carrello e non posso andare da nessuno a chiedere:
“hai finito? andiamo ?” e con la malinconia di un bambino a cui viene detto che è l’ultimo giro poi si va a casa e fino all’anno prossimo, alla prossima fiera del prosciutto non si torna a luna park lascio la corsia delle cianfrusaglie e mi dirigo verso quella della pasta, ed è li che ricevo il colpo di grazia, pensando ad alta voce esclamo:”solo gli spaghetti sono integrali non c’è altra pasta?” doveva essere un pensiero, ma il mio maledetto vizio di parlare tra me e me fa in modo che una signora mi senta….

Che dire era pure una bella signora, con forse solo dieci ani più di me, si gira mi sorride ed esclama:
“Gli spaghetti Barilla sono qui!”, chissà cosa ha capito del mio pensiero ad alta voce se la sua risposta è così fuori tema, ma poco importa, quella che per lei doveva essere una cortesia, a me è sembrata una catastrofe!
Mi sono detto:”Devo proprio sembrare un single disperato se ho bisogno di farmi dire dove sono gli spaghetti!”  poi mi guardo la mano sinistra e noto che tra l’altro non porto la fede…
Rispondo alla signora con gentilezza un grazie che in realtà sa di amaro e per non urtare i suoi sentimenti, mi compro anche una scatola di spaghetti Barilla che non avevo di certo preventivato di comprare e intanto ancora amareggiato per non aver potuto “sguazzare” nelle cianfrusaglie, quella sensazione di tremenda solitudine mi pervade, spingo il carrello, arrivo alla cassa, mi manca e sto male.

Tocca a me, e questa volta sono da solo “contro” la cassiera, si perché di solito facciamo a gare se siamo più veloci noi riporre nel carrello la merce o la cassiera a passare la spesa, inutile dirlo, io non sono pratico, io sono da solo e questa volta la cassiera vince, ma il problema è che mi manca….
Erano ventitré anni che non andavo a fare spesa da solo e non mi sono mai sentito così vuoto, penso proprio che da oggi in poi a mia moglie il carrello lo spingo io e  le chiederò di guardare tra le cianfrusaglie insieme a me.

Questa sera, il Drifting non mi basta anzi questa sera in un certo senso il Drifting “lo odio”, si perché il Drifting mi ha aperto il cuore, ma quando vai a fare spesa do solo, un cuore aperto sente più freddo.

Il Drifting e nello specifico quello di Giovanni Dalla Pozza è la metafora della vita,ci da dimostrazione che la vita stessa può regalare grandi cose anche quando sembra vada tutto “storto”, l’importante è che si abbia ben chiara la traiettoria da seguire e il punto in cui si vuole passare (Clip) per arrivare al traguardo che ci siamo prefissati.