Mese: Marzo 2019

Il giorno di Luciano

LUCIANO
Indossava un tutore, alla mano destra, quella che sarebbe servita di li a breve per firmare, firmare quei documenti che nessuno dovrebbe trovarsi a leggere e sottoscrivere nella vita; si perché di scelte di vita si trattava, vita di qualcun’altro.

Così all’improvviso Luciano (nome di fantasia) si era ritrovato a dover prendere decisioni cosi importanti, lui che al massimo aveva deciso che sugo mettere nei fusilli, oggi doveva chiedersi se tentare di salvare la vita del padre con un gesto estremo o se risparmiare al padre stesso a tutto il resto della famiglia uno proseguimento di stenti e di fatiche.

Luciano aveva le idee abbastanza chiare, sapeva già cosa avrebbe deciso, cosa avrebbe detto ai dottori non aveva mai avuto le idee cosi chiare in vita sua, fino a quando arrivò in reparto, si perché in quel reparto al 5° piano dell’ ospedale, la vita era assai diversa da come la immaginava lui o almeno era una vita “sconosciuta” ai più.

In quel lunghissimo corridoio del 5° piano, che appariva assai più lungo di quello che era in realtà, in alto sopra la porta campeggiava un enorme orologio digitale che alternava data e ora a cadenza quasi logorroica, quasi volesse porre l’accento su ogni singolo minuto passato in questo luogo, a Luciano pareva di sentirla, quella voce che continuava a ripetere “lo vedi quanto sei fortunato a non dover vivere qui dentro?”.

Nel frattempo la vita de decine di persone scorreva lenta e inesorabile in un’intreccio di dolore e speranze, un’anziana moglie spingeva una carrozzina con a “bordo” un vecchio marito,

personaggi che sembravano essere usciti dai cartoni animati dei Simpson dialogavano su quali medicinali ingerire mancava solo la classica frase “libera i cani..” il tutto nell’andirivieni di infermiere indaffarate in mille cose, quasi sembravano formiche operaie durante la stagione dell’approvvigionamento in vista dell’inverno; la più anziana di esse che curava con fare materno il padre di Luciano.

Bastarono qui pochi, ma lunghissimi minuti a Luciano per cambiare idea, perché in quei cinquanta minuti egli aveva apprezzato la vita come non mai prima, decise allora di tentare di “donare” al proprio padre un’ulteriore possibilità, consapevole che di li avanti la vita di entrambi e di molte altre persone sarebbe stata più dura , ma comunque degna di essere vissuta fino all’ultimo e in ogni modo.

Si tolse il tutore, firmò le carte e tornò ad osservare le vite e i momenti che scorrevano inesorabili in un continuo alternarsi di dolore, speranze attese e a volte disilluse.

Poi, trascorse una manciata di ore a Luciano  venne posto un quesito assai più grave, assai più importante e “pesante” a Luciano venne chiesto di decidere tra una fievole speranza e un’ inesorabile quanto devastante certezza… ma questa è un’ altra storia, cosa abbia deciso e perché, resterà per sempre un segreto, nascosto nell’angolo più remoto del suo cuore sommerso da centinaia di ricordi così brutti che non è giusto raccontare.

Furono solo poche ore di quel giorno, poche se pensiamo al contesto di una vita, ma vi assicuro furono ore che la vita, la cambiano davvero.

A mio padre.

19/9/1937 – 16/3/2018

Io NON sono un fotografo

 

Il fotografo professionista pratica la fotografia come professione (per lavoro) seguendo principi etici e legali, volti a soddisfare il committente; il fotoamatore o “fotografo dilettante” invece pratica la fotografia per diletto, per svago, per divertimento, per passione (non a scopo di lucro), molto spesso per documentare o/e per ricordare o produrre ricordi.

Questa in sintesi la descrizione della parola fotografo.Tratto da Wikipedia

Ecco perché io non sono un fotografo, ho provato anche a cercare la definizione sul vocabolario.. Fotografo

Ma niente io non sono un fotografo!

Lei ci crede a questo? A un fuoco inestinguibile che ti divora eternamente.
(Dal film Amadeus)

 

Il vero fotografo è, secondo me,  colui che oltre a essere appassionato di fotografia, passa buona parte del suo tempo a osservare il lavoro di altri fotografi attraverso mostre, libri, convention  e quant’altro è colui che studia la tecnica e magari sa con perfezione certosina come posizionare le luci in uno studio o che posa fare assumere ai propri soggetti è colui che studia la fotografia in tutte le sue forme e in tutti i modi possibili, iscrivendosi magari a una quantità smisurata di canali video per vedere in anteprima l’ultimo tutorial sulla sua materia preferita, la fotografia in tutte le sue sfaccettature appunto.

 

Si può avere un grande incendio nella propria anima, eppure nessuno è mai venuto a scaldarsi. I passanti vedono solo un filo di fumo dal camino e continuano sulla loro strada.
(Vincent Van Gogh)

 

Oppure è colui che è disposto a sgomitare nella ressa tra colleghi per ottenere l’inquadratura migliore e infine è sicuramente colui che sa vendere in primis se stesso e di conseguenza il proprio prodotto.

Io non sono nulla di tutto questo!

Se ti aspetti da me che sappia dirti quale è l’attrezzo migliore, la migliore ottica o l’ultimo ritrovato in materia di luci da studio allora sei nel posto sbagliato.

Io al massimo posso invitarti a leggere questo: Imparare a fotografare

 

L’amore è come un fuoco all’aperto. Può essere appiccato rapidamente, e appena acceso emette un sacco di calore, ma si consuma rapidamente. Perché dia un calore durevole e stabile (con deliziose fiammate di calore intenso di tanto in tanto), devi curare il fuoco con attenzione.
(Molleen Matsumura)

Io di certo saprò insegnarti a come ringraziare ogni volta ogni tuo singolo soggetto, perché sono fermamente convinto che anche il migliore dei fotografi non sarebbe nulla senza la disponibilità (mai scontata) dei propri soggetti a lasciarsi riprendere.

Io sono “solo” una semplice persona, con un trascorso alle spalle (come tutti del resto) un trascorso fatto di delusioni ferite e cicatrici nel cuore, schiavo di un passato che mi rende umile e ferito allo stesso tempo, ferite alle quali però non voglio soccombere e che anzi mi fanno gridare vendetta!

Una vendetta che cerco di mettere con tutto me stesso nello scattare immagini!

Una vendetta che si compie ogni qual volta riesco a creare uno scatto che “combatte” o è agli antipodi di tutto il dolore che ho dentro.

Ecco io sono IO e non sono certamente un fotografo.

Tieni dentro di te un piccolo fuoco che brucia; per quanto piccolo, per quanto nascosto.
(Cormac McCarthy)

 

 

 

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IMPARARE A FOTOGRAFARE 

Testo  Michele Vacchiano © 01/2000

Autorizzazione alla pubblicazione richiesta tramite e-mail
Immagini di Fausto Accorsi

Venerdì sera diversi

 

Imparare a fotografare. Come? Scuole, corsi, attenta lettura di libri e riviste? 

Può darsi, ma certamente non basta. 

Alcuni corsi a cui ho assistito mi hanno convinto di essere stati organizzati al solo scopo di spillare denaro agli iscritti. 

Che dopo ne escono più ignoranti e confusi di prima. 

Ho visto troppi “docenti” tanto improvvisati quanto incapaci di trasmettere qualcosa di diverso dalle solite nozioncine tecniche. 

Ma la gente che si iscrive a un corso di fotografia non vuole sentirsi dire quello che già legge (con una spesa di molto inferiore) sulle riviste e sui manuali per dilettanti. 

Per quanto riguarda le riviste, diventa difficile per il principiante distinguere tra chi lavora per la crescita della fotografia e chi rappresenta soltanto uno strumento del mercato. 

La rivista che tutte le estati pubblica l’articoletto su come fotografare sulla spiaggia e per il resto dell’anno non si solleva molto al di sopra di questo livello non fa vera informazione. 

Insegnare alla gente che cos’è uno zoom o come si ficca un soggetto all’incrocio dei terzi significa solo rimasticare le solite cazzate (mi assumo ogni responsabilità per questo termine, ma è ancora poco), che si ripetono da un secolo e mezzo e si sono acquisite senza spirito critico. Non serve a niente se non a far soldi senza impegnare il cervello. 

E allora come si fa a imparare davvero? Ci sono segreti, trucchi del mestiere? 

No, nessun segreto, nessun trucco. Smettiamola con queste manfrine. 

Smettetela, giovani amici che iniziate a percorrere i sentieri della fotografia, di chiedermi consiglio sull’acquisto di un’attrezzatura “professionale”. 

Non esistono macchine professionali, la professionalità sta in chi le adopera. Una Nikon F5 in mano a un dilettante che la usa al cinque per cento delle sue possibilità tecniche è assai meno professionale della Minox che mi porto dietro io sul ghiacciaio. E su questo non mette conto spendere ulteriori parole. 

Quello che bisogna fare è cambiare mentalità, smettere per almeno tre mesi di leggere alcunché, smettere di partecipare ai newsgroup, gettare nel bidone della carta da riciclo tutti i pieghevoli pubblicitari su questo o quel modello raccolti in anni e anni di paziente frequentazione dei negozi specializzati, che ormai ci odiano perché abbiamo troppo rotto le scatole nel chiedere informazioni e caratteristiche tecniche senza comperare mai niente. 

E finalmente uscire. 

Uscire di casa, ma anche da se stessi; alzare le natiche dalla sedia girevole e staccare gli occhi dallo schermo del computer. Piantarla una buona volta di vivere in modo virtuale e imparare a vivere sul serio. 

Che c’entra questo con la fotografia? C’entra moltissimo. Perché quando decidi di vivere decidi anche di riappropriarti dei tuoi sensi. Vista compresa, ma non solo. 

Lasciate a casa la macchina fotografica e prima di tutto imparate a guardare. Con gli occhi, non attraverso un mirino. 

Che cosa fate al mattino davanti allo specchio? 

Vi limitate a farvi la barba in fretta pensando (già irritati) agli impegni della giornata, o siete capaci di godere la carezza ruvida del rasoio, che passando sul viso traccia strade regolari attraverso la schiuma soffice e candida come fa lo spartineve nelle giornate limpide di gennaio? Trangugiate in fretta un caffè bollente o uno squallido cappuccino al bar sotto casa, oppure siete capaci di far correre la fantasia sulle spire del fumo che si solleva pigro da una scodella di latte o da una tazza di tè fragrante e profumato? Nel frattempo, sapete godervi l’essere ancora svestiti, il profumo della vostra pelle dopo la doccia, il tocco dei piedi nudi sul pavimento? 

Quand’è stata l’ultima volta che – uscendo di casa al mattino presto – avete sollevato lo sguardo al cielo per vedere se c’era la luna? 

E soprattutto, quanti di voi sanno in quale fase si trova la luna adesso? Rispondete in cinque secondi senza guardare il calendario. 

Ma come pretendete di fotografare se prima non imparate a osservare, e soprattutto a godere di ciò che osservate? 

Pensate alla semplice percezione del caldo e del freddo. Sembra che oggi la gente abbia perso la capacità di usare la propria pelle come strumento di ricezione degli stimoli. 

D’inverno tiene il riscaldamento acceso e quando esce si intabarra in pellicce e montoni al solo scopo di mantenere costante la temperatura corporea. D’estate si lamenta dell’afa e sembra non poter fare a meno dell’aria condizionata. Vorrebbero vivere in uno di quei paradisi tropicali dove regna l’eterna primavera. 

Sai che barba! D’inverno fa freddo. Okay, e allora? Il nostro corpo È FATTO per sentire il caldo e il freddo e possiede ottimi meccanismi di termoregolazione. Chi ha provato che cosa vuol dire il freddo (il VERO freddo, signori miei, non quello che può patire il cittadino-bene) non si fa tutte queste paranoie. Io sono uno che in città si veste molto poco. Esco, fa freddo. Okay, ma io so che tra pochi minuti salirò su un autobus riscaldato, e dopo un tragitto più o meno lungo sarò in un ufficio riscaldato. Nel breve percorso intermedio sentirò il freddo sulla pelle. Punto e basta. Non mi ammalerò certo per questo, anzi, avrò più probabilità di ammalarmi sull’autobus che non camminando per strada. 

Accettate di percepire il caldo e il freddo sulla vostra pelle, e invece di lamentarvene usate queste sensazioni per capire che tempo fa, per entrare in contatto con l’ambiente, con l’aria, col vento e le nuvole. Siete fatti di atomi e molecole, la stessa materia che forma le stelle; l’universo fa parte di voi come voi fate parte di lui. Perché rifiutarlo o averne paura? 

Nella bella stagione, uscite quando piove. Perché usare l’ombrello? Perché trovate piacevole la pioggia artificiale della vostra doccia e fuggite la pioggia del cielo? Se non gettate via l’ombrello non saprete mai quant’è divertente sentire i goccioloni del temporale che picchiettano sulla pelle, suscitando crepitii e sciacquii che cambiano di tono a seconda del punto colpito. Se non siete capaci di sedervi accanto a un ruscello per ascoltare quante voci ha, per indovinare in quanto tempo quel ramo portato dalla corrente arriverà davanti a voi, non riuscirete mai a fotografare davvero. 

Perché fotografare non significa riprodurre la realtà, ma interpretarla. 

Significa tradurre il mondo filtrandolo attraverso la propria esperienza, la propria capacità di elaborare i dati sensoriali, la propria fantasia. 

Fotografare vuol dire illustrare non il soggetto, ma il rapporto sottile (e dialettico) che si è saputo instaurare con lui. 

Comunicare sensazioni, l’odore dell’aria, la voce del vento. A volte fotografare significa saper prescindere dal soggetto per rappresentare un sogno. 

Non lo si può fare se si è smesso di sognare. 

E non lo si può fare quando il proprio mondo interiore è inesorabilmente, insopportabilmente vuoto. 

Testo  Michele Vacchiano © 01/2000