Racconti

Vajont

I miei pensieri, maturati durante le mie visite, fissati nel tempo dalle mie foto.

Longarone, Bar Gelateria Perin, Interno.
Ho scelto appositamente un tavolo isolato, lontano dal via vai, cercando quel silenzio che invita alla riflessione. Mentre aspetto il caffè, la mente vaga indietro nel tempo. Chiudo gli occhi e mi sembra quasi di sentirli, i rumori di un’altra epoca. Le voci allegre, le risate fragorose. Forse, quella sera del 9 ottobre, proprio qui qualcuno guardava la partita, ignaro della tragedia imminente. Tra un bicchiere di buon vino e chiacchiere spensierate, nessuno avrebbe potuto immaginare che di lì a poco quel chiasso gioioso sarebbe stato sostituito da un silenzio eterno.
Chiesa di Longarone, vista panoramica dal tetto della chiesa.
Da questa prospettiva, il cemento domina la scena, ruvido e indomito, quasi una cicatrice tangibile sul paesaggio montano. È lo stesso cemento che ha segnato la storia di questo luogo: cinquanta anni fa, indiretto complice di una tragedia che ha strappato via 2.000 anime, è oggi l’elemento che protegge, che avvolge e rassicura. Ogni blocco sembra voler dire: “Questa volta siamo pronti”. È come se, nel profondo, l’architettura stessa cercasse di esorcizzare il passato, erigendo edifici robusti, solidi, capaci di resistere a futuri imprevisti. Sotto la superficie di ogni scala, di ogni muro, si avverte una silenziosa promessa: non accadrà di nuovo. Questa città, ricostruita nel cemento, è un monumento alla resistenza, una difesa subconscia contro l’invisibile, come se gli abitanti stessi, nel progettare i loro spazi, volessero prendersi una rivincita sulla fragilità che li ha colpiti così duramente.
Chiesa di Longarone, altare principale.
Questo luogo sacro sorge su un terreno intriso di memoria e di dolore, sulle rovine di ciò che una volta era il vecchio santuario, distrutto ma mai dimenticato. Alcuni frammenti del passato resistono, come silenziosi custodi, visibili sia all’interno che all’esterno della nuova costruzione. È un omaggio a ciò che è andato perduto, e allo stesso tempo una testimonianza di rinascita.
Nell’ottobre del 1966, a Giovanni Michelucci venne affidato il compito di progettare la nuova chiesa, una missione tanto delicata quanto complessa. La sua visione architettonica non fu immediatamente accolta con favore, dando vita a polemiche e discussioni che si protrassero per anni. Solo con il consenso definitivo del vescovo di Belluno e Feltre, nel 1975, si poté finalmente dare inizio ai lavori. Quella che sarebbe diventata la nuova casa spirituale per i fedeli di Longarone vide la luce nell’ottobre del 1983, con la sua consacrazione ufficiale.
Oggi, la chiesa non è solo un luogo di culto, ma anche un simbolo di resilienza, un faro di speranza costruito su una terra che ha conosciuto l’oscurità. Attraverso il suo altare, il suo spazio avvolgente e le sue linee moderne, essa parla di un passato doloroso e di una comunità che ha trovato la forza di ricostruire, di credere ancora.
Chiesa di Longarone, vista interna dalla tribuna rialzata.
Dall’alto della tribuna, lo spazio si apre in tutta la sua complessità architettonica, rivelando la straordinaria visione del suo progettista. La chiesa, unica nel suo genere, si sviluppa su due anfiteatri sovrapposti. L’anfiteatro inferiore, coperto e intimo, ospita l’aula vera e propria, uno spazio sacro in cui il silenzio e la riflessione trovano rifugio. Qui si celebrano i riti, si incontrano gli sguardi, e si condividono le preghiere.
Sopra di esso, l’anfiteatro superiore, scoperto e aperto verso il cielo, è come una piazza sospesa nel tempo e nello spazio, da cui lo sguardo può allungarsi fino alla diga, quella ferita profonda nella montagna che ha segnato per sempre la vita della comunità. Questo spazio esterno sembra essere pensato per la meditazione, un luogo in cui il dialogo tra l’uomo e la natura, tra il cemento e le montagne, tra il passato e il presente, si fa più diretto, senza filtri.
All’interno dell’aula, le linee circolari della tribuna rialzata avvolgono il cuore della chiesa, come a voler proteggere ciò che resta di una fede che ha resistito, nonostante tutto. È uno spazio di raccoglimento che, pur nella sua modernità, trasmette un senso di continuità con la tradizione. Ogni gradino, ogni curva sembra parlare di una comunità che si è rialzata dalle sue rovine, trovando nelle sue stesse ceneri la forza per andare avanti.

Chiesa di Longarone, cappella laterale con fonte battesimale.
Nella quiete della cappella laterale, lontano dal cuore centrale della chiesa, si erge il fonte battesimale, semplice e silenzioso. Un piccolo altare, con la sua sobria eleganza, domina lo spazio intimo, invitando alla riflessione e alla preghiera. Qui, lontano dallo sguardo del vasto anfiteatro, il battesimo, simbolo di nuova vita e rinascita, trova il suo posto.
Il fonte battesimale, in pietra, porta con sé il peso di secoli di tradizione, ricordando i riti di iniziazione che, per generazioni, hanno segnato l’inizio del cammino di fede per molti. In questa cappella, circondata da mura spoglie ma intrise di significato, la comunità si riunisce in momenti di intima celebrazione, dove ogni goccia d’acqua versata diventa simbolo di una promessa, di un legame eterno tra l’umano e il divino.
Le curve della struttura, che avvolgono delicatamente lo spazio, fanno eco a un abbraccio materno, proteggendo il sacramento che qui si compie. È come se questo luogo, pur nella sua modernità, volesse ricordare l’antica forza della fede, quella stessa fede che ha permesso alla comunità di Longarone di rinascere dalle ceneri della tragedia, trovando conforto in rituali che parlano di speranza e continuità.
Chiesa di Longarone, una riflessione sul silenzio.
In un angolo della chiesa, una donna siede sola, avvolta nel silenzio che riempie l’ampia sala vuota. L’atmosfera è densa, quasi palpabile, resa ancor più intensa dall’eco di una lontana tragedia che ha segnato la memoria collettiva. Gli anni sono passati, ma il dolore rimane inciso nelle pareti e nei cuori di chi ricorda. Una chiesa che, un tempo, avrebbe potuto essere piena di vita, di preghiere sussurrate e di volti familiari. Oggi, invece, ciò che resta sono le panchine vuote, l’elenco delle vittime e i lumi accesi in loro ricordo, che brillano come piccole stelle nel buio della sofferenza.
Il libro delle Sacre Scritture è aperto, ma quasi dimenticato. Una candela, ferma accanto a esso, sembra custodire parole di conforto che nessuno sembra più ascoltare. Il legno delle panchine, levigato dal tempo, racconta una storia di resilienza, di un popolo che nonostante tutto non ha dimenticato. Ogni nota di silenzio, ogni raggio di luce che filtra attraverso le finestre, è un muto tributo a chi non c’è più, ma che vive ancora in ogni respiro trattenuto, in ogni lacrima versata.
C’è qualcosa di profondamente toccante nel contrasto tra la vastità dell’architettura moderna e la solitudine di chi vi cerca rifugio. La sofferenza, in questa chiesa, non è un ricordo del passato, ma una presenza costante, che si mescola alla speranza di una rinascita spirituale, di una comunità che cerca di andare avanti senza mai dimenticare.
Chiesa di Longarone, il peso del ricordo.
Una figura si staglia accanto al fonte battesimale, uno sguardo solenne e segnato dagli anni. Le sue mani si appoggiano con delicatezza alla scultura, quasi a cercare un sostegno, un contatto con il passato che qui sembra ancora così presente. Attorno a lei, le sculture in bronzo raffiguranti figure religiose appaiono come silenti testimoni di un’epoca passata, custodi delle memorie di chi non c’è più.
In questo momento, la chiesa sembra sospesa nel tempo. I passi lenti di chi entra ed esce echeggiano sulle pareti, interrotti solo dal rumore sommesso della porta che si chiude alle spalle di chi si allontana. Ma chi rimane, come questa donna accanto al fonte battesimale, porta sulle spalle un peso che va oltre la semplice presenza fisica: è il peso del ricordo, della memoria di una comunità distrutta e mai del tutto ricomposta.
Gli occhi della donna, profondi e silenziosi, raccontano una storia che va oltre le parole. Forse ricorda un battesimo celebrato qui tanti anni fa, o forse è semplicemente lì per onorare chi non è più tra noi. In ogni caso, il suo gesto, pur così semplice, è carico di significato: in questo luogo sacro, ogni movimento sembra un atto di devozione, un tributo al passato e al coraggio di chi ha continuato a vivere nonostante tutto.
Chiesa di Longarone, passaggio sotterraneo
Nel silenzio del passaggio sotterraneo della Chiesa di Longarone, si apre un cammino che sembra portare verso una memoria sepolta, una memoria che aspetta di essere riscoperta. Qui, tra queste pareti fredde e spoglie, si trova un piccolo museo, un luogo che custodisce frammenti di una tragedia incisa nel cuore di chiunque attraversi questo spazio.
Il pavimento, decorato da lastre di pietra e interrotto da strisce d’acciaio, porta con sé un segreto che solo un occhio attento può cogliere. Ogni lastra è attraversata da borchie d’ottone, che a prima vista sembrano parte di una decorazione, un semplice dettaglio estetico. Ma è solo percorrendo questo cammino, passo dopo passo, che si scopre il vero significato: le borchie sono duemila. Ognuna rappresenta una vita, un’anima spezzata dalla furia dell’acqua quella notte del Vajont.
Camminare su quelle borchie, calpestare il ricordo di così tante vite, mi ha provocato un senso di profonda vergogna. Ogni passo sembrava un peso, ogni suono il ricordo di una presenza, di una perdita che non si può dimenticare. Attraversare questo corridoio non è solo un atto fisico, ma un viaggio emotivo, un confronto con il passato e con la sofferenza che ancora riecheggia tra queste mura. 
Questo è un luogo di rispetto e riflessione, dove la memoria delle vittime del Vajont vive silenziosamente, sotto i nostri piedi, in attesa di essere onorata con la consapevolezza e il ricordo.
Chiesa di Longarone.
Momenti di raccoglimento.
In questa chiesa, dove il silenzio si intreccia con i ricordi, ogni gesto sembra carico di un’intensità quasi sacra. Le persone si muovono con una calma che è allo stesso tempo rispetto e devozione, come se ogni passo fosse un omaggio alla memoria di ciò che è stato. La luce, fioca e gentile, filtra dalle finestre, accarezzando le superfici fredde del legno e della pietra, creando un’atmosfera sospesa tra il presente e il passato.
Qui, il raccoglimento diventa non solo un atto di preghiera, ma un modo per connettersi profondamente con la storia, con le vite interrotte, con il dolore e la forza di un’intera comunità. È uno spazio dove si ascolta non solo il silenzio, ma anche l’eco lontano delle voci di chi non c’è più, eppure sembra ancora presente. In quel momento, lo sguardo si posa sugli altri, che come te, sono qui per riflettere, per ricordare, per cercare forse una pace che va oltre la comprensione.
Chiesa di Longarone, esterno.
Momenti di memoria.
L’uomo si china davanti a ciò che rappresenta molto più di un luogo sacro: è un simbolo della memoria, della tragedia incisa nel cuore di una comunità. In questo momento di silenzio, ogni respiro sembra portare con sé il peso della storia, delle vite spezzate e dei sogni interrotti. La statua della Madonna veglia silente dall’alto, come una presenza protettiva e materna che assorbe le preghiere di chi cerca conforto.
Le immagini appese al muro ritraggono un paesaggio devastato, un paesaggio che è stato testimone della furia della natura e dell’imperizia dell’uomo. Davanti a queste testimonianze visive, il gesto semplice e umile di accendere una candela o chinare il capo acquista un significato profondo, quasi solenne. Non è solo un atto di fede, ma un modo di mantenere viva la memoria, di non lasciare che il tempo cancelli il dolore e il ricordo di quel che è stato.
Ogni dettaglio in questo spazio sembra raccontare una storia, una storia di vite perse ma mai dimenticate, di una ferita che, sebbene invisibile agli occhi, è ancora aperta nell’anima di chi vive questi luoghi. In quel momento, la memoria diventa presenza, diventa il legame tra passato e presente, tra dolore e speranza.
Cimitero monumentale di Fortogna, non verrete mai dimenticati.
In questo luogo di eterno riposo, il silenzio è interrotto solo dal lieve fruscio dei passi di chi, con rispetto e devozione, si ferma davanti ai nomi incisi. Le pareti, gremite di targhe commemorative, sembrano abbracciare chiunque entri, raccontando le storie di coloro che qui riposano, come sussurri che il vento porta via, ma che la memoria umana conserva con tenacia.
L’anziana donna, chinata in raccoglimento, non è sola nel suo momento di riflessione. I nomi dietro di lei, disposti in fila ordinata, sembrano chiamare ognuno con una voce che appartiene al passato, ma che vibra ancora nel presente. Ognuno di quei nomi è un ricordo, una vita, una testimonianza. Non sono solo segni su una targa, ma vite vissute, spezzate in un istante, che ora trovano qui la loro eternità.
“Non verrete mai dimenticati” non è solo una promessa, ma un impegno. Chi viene qui lo fa per mantenere viva la memoria, per assicurarsi che la tragedia non venga mai sepolta sotto la polvere del tempo. Ogni gesto, ogni fiore lasciato ai piedi di queste lapidi è un tributo silenzioso, un modo per dire: “Siamo qui, vi ricordiamo, vi portiamo nei nostri cuori.”
In questo luogo, la memoria si fa tangibile, diventa una presenza che ti avvolge e ti ricorda che l’amore e il dolore non conoscono la fine, ma si trasformano in qualcosa di più profondo e duraturo.
Chiesa di Longarone, notturno
Nel silenzio della notte, la Chiesa di Longarone si staglia contro il cielo scuro, illuminata da una luce che ne esalta le linee e le forme. Il bianco cemento, freddo e imponente, richiama inevitabilmente alla mente quello della diga, simbolo di una tragedia indelebile. Anche l’anfiteatro superiore della chiesa, visto da questa prospettiva, sembra riprodurne la sagoma, come un’ombra che aleggia su tutto.
Ogni dettaglio di questa struttura, dalla croce che svetta alta, alle curve possenti delle sue mura, sembra portare con sé un legame indissolubile con la diga, quella che una volta dominava e proteggeva, ma che poi è divenuta il simbolo di una distruzione inarrestabile. A Longarone, tutto è segnato da questo legame tragico: la terra, le persone, e persino l’architettura.
In questa quiete notturna, la chiesa non è solo un luogo di culto, ma un memoriale vivente, un monito silenzioso che ricorda a tutti coloro che la osservano che il passato non può essere dimenticato. La sua presenza è un muto dialogo con la memoria, un invito a riflettere su ciò che è stato, e su ciò che non deve mai più accadere.
Chiesa di Longarone
Non vi è angelo che possa proteggere chi è vittima di interessi troppo grandi, di potenti troppo corrotti, di uomini troppo egoisti. Questa immagine della Chiesa di Longarone, con la sua architettura moderna e possente, si staglia contro le montagne che furono testimoni silenziose della tragedia del Vajont.
Le linee dure e decise della struttura contrastano con la dolcezza del paesaggio naturale, quasi a simboleggiare la brutalità degli eventi che hanno segnato questo luogo. Nonostante la presenza di simboli di fede, come la croce, sembra che nemmeno il divino possa intervenire contro le forze devastanti scatenate dall’avidità umana.
In questa scena, il cielo coperto di nubi e la croce che si erge solitaria raccontano una storia di impotenza e rassegnazione, ricordando che anche i luoghi sacri non sono immuni alla corruzione e alla violenza che gli uomini infliggono alla terra e a sé stessi. Questa chiesa, eretta in memoria delle vittime, diventa così un monumento non solo al dolore e alla perdita, ma anche alla fragilità della giustizia e della protezione divina di fronte all’ingiustizia umana.
Fortogna, cimitero monumentale, stele a ricordo delle vittime, ma anche a monito per le nuove generazioni.
Di fronte a questa stele in vetro, il cielo si riflette su di essa, fondendosi con le parole incise in diverse lingue, come se la memoria delle vittime volesse salire in alto, verso l’infinito. La trasparenza del vetro sembra voler rappresentare la fragilità dei diritti umani, spesso invisibili o trascurati agli occhi di chi detiene il potere. Così come il vetro, i diritti dei più vulnerabili possono essere ignorati, ignorati come il riflesso che si dissolve nell’azzurro del cielo.
Questa stele non è solo un tributo alle vittime della tragedia, ma anche un avvertimento, un monito che si eleva verso il futuro. Le sue parole, scritte per non essere dimenticate, si riflettono nel paesaggio circostante, come un eco che rimbalza tra le montagne, ricordando a chiunque le osservi che il dolore e la giustizia non dovrebbero mai essere così trasparenti da sparire. Essa invita le nuove generazioni a non dimenticare e a vigilare affinché tragedie come questa non si ripetano, affinché la memoria si traduca in azioni, e la trasparenza in verità e responsabilità.
Fortogna, cimitero monumentale.
In un mare di marmo bianco, ogni cippo rappresenta una vita interrotta, una storia che non ha potuto continuare. Il bianco dei cippi risalta nel verde dell’erba, un contrasto che sembra gridare la tragedia, eppure, allo stesso tempo, invita a un silenzio rispettoso. Camminare tra queste file è come attraversare una galleria di memorie sospese, ognuna fissata in un unico momento di dolore.
Ognuno di questi 1.910 cippi non è solo un segno fisico della tragedia, ma un richiamo alla nostra responsabilità di ricordare. Ricordare non solo i volti e le vite spezzate, ma anche gli errori che hanno portato a questa immane catastrofe. Camminando tra queste lapidi, il passo rallenta inevitabilmente, il respiro si fa più corto, come se l’aria stessa fosse impregnata di un dolore antico e profondo.
Non c’è bisogno di parole, solo di silenzio. Un silenzio che risuona con la forza di un monito: che la memoria ci guidi, affinché il rispetto e la consapevolezza siano il lascito di chi, da qui, non potrà più parlare.
Fortogna, Cimitero Monumentale
Le statue erette in memoria dei caduti al cimitero monumentale di Fortogna raccontano la sofferenza di un popolo, un dolore scolpito nella pietra, eterno e immutabile. Le figure abbracciate sembrano condividere il peso di una tragedia che ha segnato queste terre, una tragedia che ha trasformato una montagna da benevola protettrice a spietata assassina.
Questa metamorfosi non è avvenuta per un capriccio della natura, ma per la mano dell’uomo. Il rapporto con la montagna, una volta fonte di vita e sostentamento, è diventato un legame tragico e lacerante, corrotto dall’avidità e dall’arroganza di chi ha sfidato l’ordine naturale delle cose. Le espressioni dolenti delle statue sembrano parlare di un legame tradito, di una natura che, forzata oltre i suoi limiti, ha risposto con una forza devastante.
Ogni curva di queste statue, ogni dettaglio delle loro espressioni, evoca la memoria di chi ha perso la vita, vittima non solo della montagna, ma soprattutto dell’uomo e delle sue azioni sconsiderate. La pietra fredda su cui sono scolpite queste figure diventa così un simbolo della tragedia, della perdita e della responsabilità umana.
Fortogna, cimitero monumentale.
Il marmo freddo e impassibile riporta nomi e date, ma nella sua ripetitività emerge un inquietante simbolo di una tragedia che ha cancellato ogni distinzione, riducendo l’unicità di ogni vita a una semplice cifra. Ognuno di questi cippi è la testimonianza di una vita spezzata, interrotta in un istante che non avrebbe mai dovuto accadere.
C’è chi aveva vissuto appena qualche giorno, chi aveva già visto decenni di vita. Il destino non ha fatto distinzioni: giovani, anziani, famiglie intere sono stati travolti dalla stessa implacabile forza. Di fronte a disastri provocati dall’avidità e dall’indifferenza, l’umanità diventa anonima, i volti scompaiono, e resta solo la cruda contabilità della perdita.
Ogni nome inciso qui meriterebbe una storia, una memoria indelebile che vada oltre il numero che lo rappresenta. Eppure, di fronte al potere, siamo tutti esposti alla stessa vulnerabilità, tutti uguali nella fragilità della vita. Passando tra queste file, non possiamo che chiederci quante volte nella storia si sia ripetuto lo stesso copione: l’innocenza travolta dalla negligenza, dall’arroganza di chi ha deciso per gli altri, senza considerare le conseguenze.
Fortogna, cimitero monumentale.
La scultura, con i suoi tratti scolpiti in maniera così precisa, trasmette un’angoscia che si percepisce al primo sguardo. Il volto curvo, segnato da una rassegnazione silenziosa, rappresenta non solo i morti, ma anche i sopravvissuti, coloro che portano per sempre dentro di sé il peso di una tragedia che li ha marchiati nell’anima. Non si tratta solo di una commemorazione di vite spezzate, ma di un monito che risuona nel tempo: le ferite inflitte da una catastrofe non si limitano al momento dello schianto.
Dietro ogni dettaglio, ogni piega, si cela un dolore insopportabile, una disperazione che ha travolto intere famiglie, comunità, lasciando solo silenzio e pietra fredda a testimoniare l’orrore. Non vi è colpa nei volti scolpiti, ma solo la sofferenza di chi ha subito, di chi è stato costretto a pagare per decisioni altrui, quelle decisioni prese nelle stanze lontane del potere, dove il valore della vita umana si dissolve di fronte agli interessi personali.
Questa scultura, come un grido soffocato, rappresenta il lutto collettivo e, allo stesso tempo, una richiesta di giustizia mai del tutto soddisfatta. Il peso del marmo non può restituire il calore delle vite perdute, ma può ricordare a chi osserva che dietro a ogni tragedia provocata dall’uomo c’è un prezzo altissimo da pagare, un prezzo che ricade sempre sui più vulnerabili.
Fortogna, cimitero monumentale.
Silenzio.
Un silenzio che non è vuoto, ma carico di assenza. Ogni lastra di marmo racconta una storia che non può più essere ascoltata. Qui il tempo sembra essersi fermato, come se persino il vento, il sole e la pioggia rispettassero il dolore inciso nella pietra. Le lapidi, tutte allineate con precisione, creano una marcia di nomi e vite interrotte.
Questo silenzio è denso, quasi tangibile. Non è il silenzio tranquillo di un luogo di pace, ma quello opprimente di una tragedia che ancora riecheggia, come un respiro trattenuto che non riesce a trovare liberazione. Qui si sente il peso delle vite spezzate, di chi non ha avuto il tempo di dire addio, di chi ha visto tutto svanire in un attimo.
Ogni passo che si compie tra queste tombe sembra amplificare il senso di smarrimento. In questo luogo, il silenzio diventa una presenza potente, un monito perpetuo di ciò che è stato, un invito a non dimenticare mai.
Fortogna, Cimitero Monumentale
In questo monumento, la pietra prende vita, immortalando l’agonia di chi non ha mai avuto l’opportunità di respirare il mondo. La figura di una donna incinta, con il ventre delicatamente accarezzato dalla sua stessa mano, è simbolo straziante di vite spezzate ancor prima di nascere, vittime innocenti di una catastrofe che non ha risparmiato nessuno.
Il volto sollevato verso il cielo sembra cercare una risposta, un conforto che non può arrivare. La montagna sullo sfondo, scura e imponente, si staglia minacciosa, quasi a ricordare il dolore che essa ha inflitto, divenendo strumento di morte sotto la guida dell’incuria e dell’avidità umana. Questo monumento non è solo una testimonianza della sofferenza, ma anche un monito: le scelte di pochi possono distruggere le vite di molti, anche di chi non ha mai visto la luce.
Le nuvole che avvolgono le vette sembrano partecipare al lutto, mentre la natura osserva, impassibile, il ricordo di una tragedia che ha attraversato generazioni.
Fortogna, Cimitero Monumentale
Le lapidi si allineano in un ordine solenne, freddi testimoni di una tragedia che ha spazzato via vite senza distinzione. Tra queste pietre, l’eco di un grido di disperazione si mescola al silenzio pesante: “grande”, “media”, “piccola”—parole che dovrebbero appartenere a oggetti, non a corpi umani. Parole che evocano la cruda realtà di un disastro in cui persino il dolore doveva essere suddiviso in categorie, forzato in un ordine imposto dall’urgenza e dall’orrore.
I fiori, delicati e vivi, si abbarbicano tra le lapidi, un contrasto stridente con la pesantezza della morte che domina questo luogo. Le rose, nel loro fragile splendore, sono un segno di memoria, di vita che continua nonostante la devastazione. Eppure, per ogni fiore che sboccia, c’è una storia interrotta, un respiro mai più ripreso, una vita spezzata troppo presto.
Sul fondo, le montagne assistono impassibili, come custodi silenziosi di queste anime, testimoni immortali di una tragedia che ha segnato per sempre il cuore di questo paesaggio. Il cimitero non è solo un luogo di riposo, ma un memento di quanto l’ambizione e la negligenza umana possano generare sofferenze inimmaginabili.
Fortogna, Cimitero Monumentale
Il 9 ottobre del 1963, un’intera comunità scomparve, inghiottita dalla furia dell’acqua e della roccia. In quella notte tragica, più di duemila vite furono cancellate, non dalla natura stessa, ma dall’avidità e dall’incuria di coloro che inseguivano il proprio interesse. Questo edificio si erge oggi come un simbolo, un luogo in cui il ricordo non è solo un omaggio, ma un ammonimento.
La montagna alle spalle sembra quasi gravare sull’architettura, come a ricordare la forza primordiale che quella notte travolse tutto. Eppure, non è la montagna la vera colpevole; lo è la mano umana che non seppe rispettarla. L’atmosfera è cupa, i cieli carichi di nubi minacciose sembrano piangere ancora quelle anime spezzate. Ogni pietra qui racconta una storia di dolore, un monito silenzioso affinché una simile tragedia non si ripeta mai più.
In questo luogo, la memoria vive e respira tra la pesantezza della tragedia e la silenziosa speranza che il sacrificio di tanti non sia stato vano.
Longarone, Dettagli
In questa immagine, Longarone appare come una macchia sfocata, indistinta, dietro la delicatezza di un fiore in primo piano. La città, un tempo viva, è ridotta qui a un’ombra indistinta, come se la sua identità fosse stata sminuita, relegata a un semplice sfondo. Così forse la vedevano coloro che, con fredda indifferenza, decisero il destino di molte vite, concentrati esclusivamente sulla loro “grande opera.”
Per loro, Longarone non era altro che un piccolo paese, insignificante nel grande schema delle loro ambizioni. Ma per chi lo abitava, era casa, era vita. Il fiore in primo piano sembra quasi voler ricordare che, nonostante tutto, una bellezza fragile e resistente ancora sopravvive tra le rovine del passato, come un simbolo di speranza e resilienza contro la tragedia e l’oblio.
Longarone, Bar Gelateria Perin
Una serata tranquilla avvolge le strade di Longarone, illuminata dalle insegne luminose del Bar Gelateria Perin, un luogo che racchiude in sé un pezzo della storia della città. Tra la pioggia leggera e i lampioni che riflettono la loro luce sul pavimento bagnato, si intravedono persone intente a trascorrere momenti di vita ordinaria.
È un angolo che ha visto passare generazioni, dove ogni tazza di caffè, ogni gelato condiviso, ha portato conforto e convivialità a una comunità che, nonostante il dolore e le perdite, ha saputo trovare spazi di umanità e ripresa. Questa piccola gelateria non è solo un locale, ma un punto fermo nella memoria di Longarone, testimone silenzioso di una storia più grande.
Longarone. Bar Gelateria Perin, interno.
Questa sera il locale si è pian piano svuotato, come ogni sera. I Longaronesi, con calma, hanno potuto fare ritorno nelle loro case, lasciando dietro di sé il silenzio tra i tavoli vuoti e i ricordi che abitano queste mura. Ma quella notte d’ottobre di tanti anni fa, per molti di loro, non ci fu lo stesso ritorno sereno. Il destino si abbatté con una violenza inaspettata, e quella che doveva essere una notte qualunque divenne un momento di addio. In questo spazio, che oggi accoglie la vita quotidiana, aleggia ancora l’ombra di chi non ebbe la stessa fortuna.
Longarone. La via centrale, via Roma.
In questa strada, via Roma, scivola una quiete apparente, interrotta solo dal riflesso delle luci sui marciapiedi bagnati. Le vetrine illuminate raccontano una normalità ritrovata, una quotidianità che forse, dopo tanto tempo, cerca di tornare. Eppure, camminando qui, è impossibile non avvertire il peso della storia che grava su queste vie. Un tempo, queste stesse strade furono testimoni di una tragedia che sconvolse ogni cosa, cancellando volti, famiglie, e sogni. Oggi, la vita sembra andare avanti, ma l’ombra di quella notte di ottobre del 1963 si allunga ancora, invisibile ma presente, tra i riflessi del passato e il silenzio del presente.
Longarone. “Scorci”
Un angolo di Longarone, silenzioso e avvolto dalla penombra, sotto un cielo che sembra trattenere il respiro. Le luci illuminano debolmente il selciato bagnato, creando riflessi che danzano tra il presente e il passato. Ogni scorcio qui ha una storia, ogni angolo porta con sé il ricordo di ciò che è stato. In questa quiete notturna, la montagna vigila imponente, come un guardiano silenzioso che osserva ciò che resta, e ciò che è andato perduto. Il tempo sembra essersi fermato, ma il battito del cuore di Longarone continua, lento e solenne, tra le pieghe di questa terra segnata dalla memoria
Longarone. La notte
Forse, anche quella tragica sera di ottobre, il cielo era limpido e profondo come questo. Forse, qualcuno passeggiava per queste stesse strade, con lo sguardo rivolto verso le stelle, ignaro di ciò che stava per accadere. Il silenzio della notte avvolgeva ogni cosa, proprio come adesso, mentre la vita scorreva con la sua quotidianità, senza sospetti. Oggi, in questo stesso punto, una nuova chiesa si erge verso il cielo, ma la sua presenza ci ricorda che il passato è inciso nelle fondamenta di questo luogo. Riflettere su ciò che è stato, su ciò che abbiamo perso e su ciò che è rimasto, è un atto dovuto, perché solo nella memoria possiamo trovare il vero significato di ciò che è accaduto.
Longarone. Momenti.
Banche, politici, potenti… tutto sembra ruotare intorno a loro. E noi, persone comuni, restiamo a osservare. Mentre ricordiamo, mentre soffriamo e, a volte, ci arrabbiamo per le ingiustizie del passato e del presente, altri potenti, altri ipocriti, continuano a manipolare le vite di milioni di persone. Le loro azioni si nascondono dietro la maschera del progresso, ma in realtà, quel progresso serve solo gli interessi di pochi, schiacciando e umiliando chi rimane indifeso. In questi momenti di riflessione, ci si accorge di quanto poco sia cambiato, di come la storia si ripeta, sempre a scapito dei più deboli. E mentre il mondo prosegue nella sua corsa, qui, nel silenzio della notte, rimane solo il peso delle domande senza risposta.
Longarone. La piazza.
In questa piazza, così ordinata e tranquilla, le luci brillano intense, ma non possono illuminare il passato. Il silenzio avvolge tutto, eppure sembra risuonare di voci lontane, di una comunità che qui si riuniva, che qui viveva e che, in un istante, fu spazzata via. Oggi è un luogo di passaggio, di vita che va avanti, ma basta un attimo per sentire il peso della memoria, il ricordo di una tragedia che ancora aleggia, invisibile ma presente. La piazza, ricostruita come la vita che si è rialzata, porta in sé la forza di chi ha voluto andare avanti, nonostante tutto.
Longarone, “Traffico” Notturno.
La rotonda silenziosa, illuminata da una luce intensa che sovrasta la scena, sembra quasi immobile. Eppure, nella quiete della notte, si percepisce il movimento. Le tracce luminose delle auto disegnano curve evanescenti, creando una danza invisibile tra passato e presente. Questo crocevia, oggi moderno e apparentemente tranquillo, nasconde sotto l’asfalto storie di vite interrotte, di un paese che, nonostante tutto, ha trovato la forza di ricominciare, di continuare a far scorrere la vita, anche dopo la tragedia. La notte, però, porta con sé il ricordo di quel silenzio carico di assenza.
Longarone, “Simboli”
In questo scatto, il modello curvato di cemento è più di una semplice opera architettonica: è un monumento alla memoria. Ogni dettaglio, ogni angolo spigoloso, racconta una storia di distruzione e resistenza. È un simbolo del Vajont e della forza travolgente che ha segnato per sempre queste terre. Protetto dal   vetro e immerso nella luce notturna, appare quasi sospeso nel tempo, come un ricordo che non vuole svanire. Di fronte, l’Hotel Posta osserva silenzioso, testimone anch’esso di una tragedia che, pur lontana nel tempo, continua a vivere nella memoria di chi passa da qui.
Longarone, vista sulla diga
Il tempo sembra scorrere in modo diverso qui, dove la diga si staglia in lontananza, silenziosa e immobile, come se stesse vegliando su ciò che resta. Le montagne, scolpite dal vento e dalla storia, circondano il paesaggio con una maestosità quasi intimidatoria. Nel mezzo, la vita va avanti: le persone passano, le case si alzano e si abbassano, i binari attendono treni che portano via e riportano indietro, ma la diga rimane lì. È un monito per le generazioni future, un ricordo eterno di ciò che accadde quella tragica notte.
Longarone, la chiesa e il ricordo.
La chiesa si erge imponente, quasi a voler sorreggere il peso della memoria di ciò che è stato. La croce svetta contro il cielo grigio, un simbolo di dolore ma anche di speranza. Le montagne la abbracciano silenziose, come custodi di una storia troppo grande per essere dimenticata. La vita intorno scorre, le persone camminano, le auto si fermano, eppure c’è qualcosa di eterno in questa scena. Il passato e il presente si intrecciano in un silenzioso dialogo, un monito per ricordare e per non dimenticare mai il sacrificio di quel luogo.
Casso, il silenzio della memoria.
Le pietre di Casso, consumate dal tempo, raccontano una storia che non ha bisogno di parole. Qui, nel piazzale della chiesa, il silenzio sembra avvolgere ogni angolo, come un manto che protegge i ricordi di un passato lontano. Le case, con i loro muri segnati dalle intemperie, osservano mute, come testimoni silenziosi di un’epoca in cui la vita scorreva diversa. È un luogo dove il tempo sembra essersi fermato, ma dove la memoria rimane viva, radicata nelle fondamenta di ogni casa, di ogni strada.
Casso. Panorama.
Dall’alto, il piccolo borgo di Casso osserva le montagne avvolte da una coltre di nebbia. Sembra quasi che la natura voglia nascondere le ferite del passato, avvolgendole in un velo di silenzio. La casa solitaria, immobile, racconta storie di chi ha resistito, di chi non ha mai voluto abbandonare questi luoghi, nonostante tutto. Il giardino davanti, curato con attenzione, è segno di vita che continua, di un legame profondo con la terra. Qui il tempo sembra essersi fermato, eppure, ogni respiro, ogni alito di vento porta con sé il ricordo di quella notte che tutto ha cambiato. Il panorama è maestoso, ma tra le sue pieghe si nasconde un dolore che solo chi conosce la storia può cogliere.
Casso. Le vie del paesino.
Le pietre consumate delle stradine di Casso portano i segni di un tempo che non si ferma, ma che qui scorre più lentamente. Una lumaca, con la sua andatura paziente e silenziosa, sembra essere l’unica testimone di queste vie dimenticate. Ogni passo sul selciato racconta storie di vita semplice, di fatiche e di resistenza. Le case di pietra, con le loro facciate ruvidamente autentiche, osservano mute un mondo che ha cambiato volto, ma che continua a vivere attraverso i piccoli dettagli. In questo angolo del paese, la tranquillità regna sovrana, come se tutto il resto potesse aspettare, lasciando spazio alla riflessione e alla memoria.
Casso, la fatica di ieri e di oggi.
In questa immagine il passato e il presente si fondono. Le pietre antiche delle case di Casso raccontano storie di generazioni che, con pazienza e fatica, hanno costruito un legame indissolubile con la terra. E oggi, anche se i muli e le gerle sono stati sostituiti da moderni mezzi, la mentalità rimane la stessa: prepararsi per l’inverno che verrà. Qui, tra queste vie strette e ripide, “si va ancora a legna”, un gesto che conserva il sapore del tempo, un tempo che sembra scorrere più lentamente, scandito dal ritmo della vita montana.
Erto. La via centrale.
Erto è un paese che non dimentica, e lo fa sapere attraverso le sue vie, i suoi muri. Le scritte che sbiadiscono lentamente nel tempo sono il grido di una comunità che non si rassegna. “SADE, ENEL, Governo = Totale 2500 morti”. Un’ingiustizia urlata su intonaci scalfiti dal tempo, che resiste come la memoria di chi ha vissuto la tragedia. Quando visitai questo luogo una decina di anni fa, quella scritta già si stagliava contro il silenzio delle strade vuote, raccontando una storia di colpa e responsabilità che è rimasta, immutata, sulle spalle di pochi e nel cuore di molti.
Erto. Scorcio.
I paesani, un tempo animati da voci e storie di vita quotidiana, sembrano oggi sospesi in un’assenza dolorosa. Le strade, un tempo percorse dai passi affrettati e dai sorrisi scambiati al volo, ora giacciono silenziose, desolate. Vicoli vuoti, immobili come se il tempo si fosse fermato in un istante irreversibile. La fontana del paese, testimone silenziosa di un passato che non ritorna, continua imperturbabile il suo corso: l’acqua scorre, indifferente al dramma che ha svuotato le case attorno. E quelle finestre, rimaste aperte come bocche mute, sembrano raccontare una storia di abbandono improvviso, di vite costrette a lasciare in fretta tutto ciò che conoscevano e amavano. Un quadro di un’assenza che parla, un eco che si diffonde tra le pietre antiche di Erto.
Casso. Panorama.
Le montagne si stagliano contro un cielo cupo, mentre le nuvole basse abbracciano la valle in un manto di mistero. Sembra quasi che la natura stessa voglia nascondere qualcosa, come a proteggere le sue ferite. Il profilo del monte, inciso da profonde cicatrici, ricorda la tragedia che ha segnato questo luogo. Eppure, nonostante tutto, la casa solitaria in primo piano resiste, simbolo di una presenza umana che, anche se fragile, non si arrende. Il silenzio qui è denso, interrotto solo dal soffio del vento e dal ricordo di un passato che non si può dimenticare.
Vajont, la diga. Veduta dal lato di quello che doveva essere il bacino.
Curve possenti, scolpite dall’ingegneria umana, si ergono con forza contro il cielo, incontrandosi e scontrandosi con l’irregolare armonia di rami e rocce. È un gioco di contrasti: la perfezione geometrica dell’uomo contro la natura selvaggia e indomabile. Eppure, in questo intreccio di linee, emerge la forma di un cuore. Ma non è un cuore pulsante di vita e speranza, bensì un cuore spezzato, affranto, ferito dall’avidità e dall’arroganza di chi ha preteso di dominare la natura. Questo cuore è un simbolo di dolore, un muto testimone della presunzione di pochi che hanno ignorato le voci, i diritti, e infine le vite di molti. Quei molti che, prima espropriati della loro terra, poi del loro futuro, hanno pagato con il sacrificio più alto: la vita stessa.

 “Un libro per la memoria: sostieni la stampa del nostro libro fotografico sul Vajont”

La tragedia del Vajont, che ha segnato profondamente la storia di Longarone e delle comunità circostanti, non deve essere dimenticata.
Per anni ho lavorato a un libro fotografico che cattura la bellezza del paesaggio e il peso della memoria, un progetto nato dal desiderio di raccontare non solo la natura, ma anche i pensieri e le emozioni che emergono in questi luoghi.

Ogni fotografia è accompagnata da una riflessione, per portare il lettore in un viaggio emotivo attraverso quei luoghi segnati dalla storia.

Obiettivo della raccolta fondi:
Ora, vorrei fare un ulteriore passo avanti: stampare il libro e donarne delle copie ai musei e alle associazioni di Longarone, affinché questa memoria collettiva possa essere condivisa e tramandata. Per farlo, ho bisogno del vostro aiuto. La cifra che ci prefiggiamo di raccogliere permetterà di stampare un numero sufficiente di copie da distribuire GRATUITAMENTE a queste realtà che lavorano instancabilmente per preservare la memoria del Vajont.

Cosa puoi fare tu:
Con il tuo contributo, potrai diventare parte attiva di questo progetto. Non si tratta solo di stampare un libro, ma di donare un pezzo di storia e di testimonianza a chi continua a portare avanti il ricordo di ciò che è accaduto. Ogni donazione, piccola o grande, ci avvicina all’obiettivo di rendere questo libro accessibile e gratuito per musei, associazioni e altre realtà culturali del territorio.

Dove andranno i fondi:
•Costi di stampa e produzione.
•Spedizione delle copie ai musei e alle associazioni.

Conclusione:
Se sei interessato a sponsorizzare il progetto, contattami
e-mail: [email protected] ti fornirò tutte le informazioni che desideri, se invece vuoi donare clicca su questo LINK


Il Vajont è un simbolo di resilienza, di memoria e di storia. Con il tuo aiuto, possiamo portare avanti questa memoria, affinché non venga mai dimenticata. Sostienici nella realizzazione di questo progetto e fai parte di una comunità che crede nel potere della testimonianza e nella forza della cultura.

Abbiamo sempre più soluzioni che problemi…

Era una di quelle giornate in ufficio in cui la tensione era palpabile. Avevamo un problema tra le mani, uno di quelli che non si risolvono con un colpo di genio o un piccolo aggiustamento. La soluzione sembrava distante, e tutti erano concentrati a cercare il modo di rimettere insieme i pezzi.

Mentre il team discuteva animatamente, un’idea un po’ pazza mi attraversò la mente. Decisi di interrompere la riunione: “Ragazzi, ho un’idea! E se invece di aggiustare il problema, gli mettessimo accanto la soluzione? In questo modo non solo evitiamo di risolverlo, ma possiamo persino usarlo come trampolino di lancio per promuovere la soluzione stessa!”

Ci fu un attimo di silenzio. Tutti mi guardarono con espressioni che variavano dal perplesso al divertito. Poi il capo, un uomo che aveva visto di tutto nel mondo del business, si piegò leggermente verso di me, con un sorriso sornione che prometteva una risposta altrettanto fuori dagli schemi.

“Fausto,” disse, “tu sei un vero sognatore. Ma lascia che te lo dica: non funzionerà mai. La gente comprerebbe l’articolo difettoso solo per avere una scusa per chiedere lo sconto!”

La stanza esplose in una risata collettiva, e non potei fare a meno di unirmi. Era come se fossimo tutti complici di una grande barzelletta, una di quelle che ti fanno riflettere mentre ridi. Ero lì, in piedi, a ridere con loro, ma la mia mente vagava altrove, afferrando un pensiero che mi faceva sorridere ancora di più.

Sapete, c’è una vecchia battuta che dice: “Io ci ho provato a farmi vedere da uno bravo, ma alla fine mi ha detto che il problema siete voi…” In quel momento, mi resi conto che il capo aveva ragione, ma non del tutto. Forse ero davvero un sognatore, forse la mia idea non avrebbe mai funzionato, ma non importava. Perché, alla fine, in un mondo dove tutti cercano soluzioni logiche e pratiche, a volte serve qualcuno che osi sognare in grande, anche se solo per ricordare agli altri che un po’ di follia non guasta mai.

E così, uscii dalla riunione con un sorriso e un pensiero fisso: forse non avevamo risolto il problema, ma almeno avevamo trovato un modo per riderci sopra. E in un mondo così complicato, forse è proprio questo il segreto per andare avanti.

Una foto-Una canzone

La canzoncina che mi suona in testa al momento dello scatto, quella che lo scatto ispira o semplicemente quella che lo scatto mi ricorda.

Tiziano Ferro-Potremmo ritornare

Per ogni immagine: il testo della canzone e il link al video.

Ogni preghiera è una promessa a Dio
Che non ho mai dimenticato
La mia preghiera non raggiunse poi
O almeno ancora la strada che avrei sperato
Perdonare presuppone odiarti
E se dicessi che non so il perché dovrei mentirti
E tu lo sai che io con le bugie
Eh, mi manchi veramente troppo, troppo, troppo, ancoraHo passato tutto il giorno a ricordarti
Nella canzone che però non ascoltasti
Tanto lo so che con nessuno avrai più riso e pianto come con me
E lo so io, ma anche te
Quasi trent’anni per amarci proprio troppo
La vita senza avvisare poi ci piovve addosso
Ridigli in faccia al tempo quando passa, per favore
E ricordiamoglielo al mondo chi eravamo e che potremmo ritornarePasso la vita sperando mi capiscano
Amici e amori affini prima che finiscano e ancora
Sempre e solo una strada, la stessa
Scelgo sempre la più lunga, la più complessa
Quindi perché mi scanso invece di scontrarti?
E tu perché mi guardi se puoi reclamarmi?
Ricordi, ce lo insegnò il 2013
Io e te all’odio non sappiamo crederciHo passato tutto il giorno a ricordarti
Nella canzone che però non ascoltasti
Tanto lo so che con nessuno avrai più riso e pianto come con me
E lo so io, ma anche te
Quasi trent’anni per amarci proprio troppo
La vita senza avvisare poi ci piovve addosso
Ridigli in faccia al tempo quando passa, per favore
E ricordiamoglielo al mondo chi eravamo e che potremmo ritornareMusica più forte
Che sfidi la morte
Accarezza questa mia ferita
Che sfido la vitaHo passato tutto il giorno a ricordarti
Nella canzone che però non ascoltasti
Tanto lo so che con nessuno avrai più riso e pianto come con me
E lo so io, ma anche te
Quasi trent’anni per amarci proprio troppo
La vita senza avvisare poi ci piovve addosso
Diglielo in faccia, a voce alta, di ricordare
Quanto eravamo belli e di aspettare, perché potremmo ritornare

Testo di Potremmo ritornare © Sugarmusic Spa, Pandar Italia Srl

Compositori: Tiziano Ferro / Michael Tenisci

(Vai al video)

Fonte: Musixmatch

Elisa – Ogni Istante

È così
Scegliere
Che ci sia luce nel disordine
È un racconto oltre le pagineSpingersi al limite
Non pensare sia impossibile
Camminare sulle immagini
E sentirci un po’ più liberi
E se si può tremare e perdersi
È per cercare un’altra via nell’animaStrada che si illumina
La paura che si sgretola
Perché adesso sai la verità
Questa vita tu vuoi viverla
Vuoi viverlaÈ cosi, sorridere
A quello che non sai comprendere
Perché il mondo può anche illuderci
Che non siamo dei miracoli
E se ci sentiamo fragili
È per cercare un’altra via nell’animaStrada che si illumina
E la paura che si sgretola
Perché adesso sai la verità
Questa vita tu vuoi viverla
Vuoi viverlaE vivi sempre
Ogni istante
Vivi sempre, ogni istante, ogni istante
Vivi sempre ogni istante
Vivi sempre ogni istante
Vivi sempre ogni istante
Vivi sempre ogni istante
(Per trovare un’altra via) nell’animaStrada che si illumina
E la paura che si sgretola
Perché adesso sai la verità
Questa vita tu vuoi viverla
Ogni istante
Vivi sempre ogni istante
Vivi sempre ogni istante
Vivi sempre ogni istante
Vivi sempre

Fonte: Musixmatch

Compositori: Elisa Toffoli (Vai al video)

Ligabue – Lettera a G.

Se ti scrivo solo adesso un motivo ci sarà
Non è mica san Lorenzo
Non ci sono stelle matte
Su ‘sta piccola città
Non ci sono desideri da non dire come tempo fa
Il destino ha la sua puntualità
Hai lottato come un uomo con la brutta compagnia
Che non eri mica stanco
Che nessuno mai è pronto quando c’è da andare via
Hai pregato bestemmiando per la rabbia per tutta l’agonia
Per le scelte che stava facendo dio
Non ci sono più i petardi
E nemmeno il diario vitt
Le bambine occhiate in chiesa sono tutte quante sposeSono tutte via da qui
Non si affaccia più tua madre alla finestra a urlare “tòt a cà”
Non c’è neanche più la tua curiosità
Dove sono le ragazze che sceglievano fra noi
E dov’è la nave scuola che hai confuso con l’amore
E forse lo era più che mai
Non c’è più la pallavolo e i tuoi attrezzi non c’è più l’hi-fi
Non ci sono più tutti quanti i tuoi guai
Quando hai solo diciott’anni quante cose che non saiQuando hai solo diciott’anni forse invece sai già tutto
Non dovresti crescer mai
Se ti scrivo solo adesso è che sono io così
è che arrivo spesso tardi
Quando sono già ricordi che hanno preso casa qui
Non è vero ciò che ho detto: qua c’è tutto a dire che ci sei
Fai buon viaggio e poi poi riposa se puoi

Fonte: Musixmatch

Compositori: Luciano LigabueTesto di Lettera a G.

© Warner Chappell Music Italiana Srl, Fuoritempo Srl

(Vai al video)

Il silenzio del Vajont.

Per non dimenticare.

Fortogna, 9 Ottobre 2016



Il Vajont sono due tragedie, e sarebbe ora di distinguerle.
La prima tragedia è quella della Diga. Tragedia vera e immane per il dolore pubblico e privato che ha generato, per le inescusabili responsabilità che sottende, per l’evanescenza delle istituzioni coinvolte, per l’irrisorietà dei risarcimenti. Per non dire della avidità degli interessi privati che l’hanno generata. È una tragedia sotto i nostri occhi da cinquant’anni, circa la quale è stato detto tutto o quasi tutto. Quello che manca, se manca, non potrà di certo modificare il giudizio storico di quanto è accaduto.

Fortogna,9 Ottobre 2016


Il fatto è che la tragedia del Vajont ha generato un’altra tragedia, dove noi siamo carnefici e vittime allo stesso tempo. Una tragedia, anche questa, evitabile e inescusabile. Anche questa collettiva, con l’aggravante che sembra non finire mai. E’ la tragedia della retorica e del dolore usati come arma contundente per una narrazione del territorio bellunese come luogo minore, marginale, oppresso, defraudato quando non deriso. Ci sono state le Vittime del Vajont? Ebbene, anche noi siamo vittime, pur se in un altro modo: vittime dell’economia, della storia, della politica, vittime del grande su noi che siamo piccoli. 

Non che questo non sia stato vero. Lo è, in parte, anche oggi. Ma spesso la tragedia del Vajont è stata usata per ricostruire il bellunese come luogo di periferia a credito con lo Stato, perennemente in stato di bisogno, sempre defraudato. Se il bellunese oggi è un luogo di acrimonia diffusa – non passa giorno che qualcuno, la politica in primis, non si lamenti di qualcun altro – lo si deve soprattutto al brodo culturale che la Tragedia del Vajont ha generato. Non era un esito scontato. 

Complice la politica, soprattutto quella “grande”, che quando viene nel bellunese corre a rendere omaggio alle Vittime del Vajont. É sempre giusto rendere omaggio ai morti, ma alcuni omaggi contengono una overdose di retorica del dolore della quale faremmo bene a liberarci. Essi omaggiano il territorio bellunese come eterna vittima, e al bellunese, oramai, piace sentirsi vittima. 

La diga, 9 Ottobre 2016

Complice certa cultura locale che sulla tragedia del Vajont, e sulla propria presunta estraneità sociale, culturale e financo morale, ha costruito miti di libertà e di riscatto. Il Vajont come il male assoluto degli altri, in contrapposizione ad una propria purezza tenace e garibaldina. Cosa di meglio, allora, ad ogni anniversario, del reggere la bandiera dei giusti defraudati, dei preveggenti inascoltati, dei miseri derelitti?
Oggi, trascorsi cinquant’anni, bisognerebbe farla finita con la retorica del dolore che ci fa vittime di continuo, usandoci come strumenti per un altro fine. Basta con il Vajont come palcoscenico, soprattutto politico, ma non solo, dove si sale ogni 9 ottobre a far comizi. Dobbiamo andare oltre. E andare oltre non vuol dire dimenticare, ma avere il coraggio di scrivere un’altra storia, migliore di quella che abbiamo alle spalle. Non è con la cultura del dolore e della strumentalizzazione che si ricostruisce qualcosa di duraturo. Elaboriamolo, il lutto del Vajont, gli strumenti per farcene una ragione storica, politica e sociale li abbiamo.
Poi basta. 
Poi, almeno per una volta, quando arriva il 9 ottobre, restiamo in silenzio.

Vincenzo Agostini, Ottobre 2013

Longarone, 9 Ottobre 2016

Ciao Alex,Lettera a Zanardi.

 

Ciao Alex, tu non sai chi sono ma se ti prendi cinque minuti per arrivare in fondo a questa lettera ti prometto che te lo dico chi sono.

Volevo dirti che ho letto quasi tutti i tuoi libri, e tra i tanti ho apprezzato molto l’ultimo, in particolare quel capitolo dove citi Cesare Cremonini…

ma scusami Alex non siamo qui per parlare di te!

A dire il vero io questa lettera non volevo nemmeno scriverla e se non fosse stato per Silvester, che mi ha chiesto ripetutamente di parlare delle emozioni che ho provato domenica, io non sarei qui a buttare giù questo testo!

Ma son sincero, io preferisco parlarti di ciò che quella domenica mi ha insegnato; perché Alex tu devi sapere che io fino a qualche tempo fa, volevo essere Batman, anche perché io e lui abbiamo molte cose in comune! 

Non ci credi? Te lo dimostro:

Sia io che lui abbiamo preso le nostre paure e invece di farle “vincere “ ne abbiamo fatto un punto di partenza per diventare invincibili (o quasi).

Come dici non ti basta?

Allora procedo:

anche io come lui, ho una bat caverna (ti metto le foto così mi credi) dalla quale ogni giorno, organizziamo la nostra vita per dare il massimo di noi stessi per i valori in cui crediamo,

anche io investo grossa parte dei miei averi in “gadget tecnologici “ che utilizzo quotidianamente nella lotta contro il “brutto “ di questa società moderna

e infine non ci crederai, ma circa due anni fa, ho addirittura acquistato una “bat mobile “ perché io ripeto, fino a qualche mese fa ci tenevo un sacco a essere Batman!

Ma poi ho capito una cosa, anzi come ti dicevo l’ho imparata proprio domenica:

Essere Batman, comporta, tra le altre, una grande controindicazione, ti espone, ti mette in vista e di conseguenza più sei Batman e più è facile che incontri uno/a degli innumerevoli Joker di cui il mondo, ahimè è pieno ed è per questo che le emozioni che ho provato domenica non le esterno,

ma stanne pur certo Alex, che sono emozioni forti e uniche.

Ecco, questo è quello che ho imparato domenica.. 

Ora ti lascio, ma non prima di mantenere la promessa iniziale, perché se sei arrivato fino a qui a leggere è giusto che io la mantenga, ti metto un’altra mia foto così se per caso ci dovessimo mai incontrare, magari anche tu mi riconosci, perché stanne certo, io se ti incontrassi ti riconoscerei:

In questa foto puoi vedere: Giovanni, Marika e Andry…. 

poi c’è anche “quell’altro “,

Ci sono io, come dici non mi vedi?

TranquilloAlex, ci sono sono quello che vuole essere Robin…

GRAZIE.

Nessuno vuole essere Robin, Cesare Cremonini

Un panino che ti cambia la vita

(Ma anche lo Spritz di Misano non scherza)

Un panino e un the freddo grazie!

E’ iniziata così, chi l’avrebbe mai detto….

Per la precisione un panino, un the freddo e qualche  foto si sono trasformati in una storia di valori antichi, condivisi e coltivati.

Lui, big Gio, mi disse: “lascia che almeno ti offra il pranzo, visto che ci regali le foto”.

La mia risposta fu laconica: “no, non posso!!” Quasi scocciato risposi!, 

“ se accetto anche solo il pranzo, vorrebbe dire che sto facendo lucro sulle mie immagini e questo non è possibile perché ho appena firmato una liberatoria dove dichiaravo che le foto non erano in vendita e sopratutto, cosa più importante andrebbe contro a i miei principi morali di usare il mio talento (che parolone, ma si sa parolone grosse fanno sempre effetto) per fini non umanitari ma di lucro”

E’ iniziata così una delle storie di vita più belle che posso raccontare….ma sinceramente questa è un’altra storia e non sono qui a parlare di questo…

Qualche giorno fa ho ricevuto una foto, da un uomo, un grande uomo che è anche un GRANDISSIMO padre, di un ragazzo eccezionale, inutile dire che immediatamente mi sentii onorato di avere ricevuto quello scatto, talmente onorato che, ci fu il rischio di montarsi la testa, ecco perché ho dovuto (anzi voluto) aspettare qualche giorno prima di rispondere al suo messaggio, nei giorni intercorsi tra l’arrivo del messaggio e la mia risposta ho viaggiato con la fantasia, tra chissà se ho capito bene il significato dello scatto e che onore l’ha mandata a me….

Poi ho deciso! Gli scrivo, lo ringrazio e chiedo chiarimenti!

Era proprio come immaginavo, il ragazzo, quel ragazzo così speciale, aveva la fidanzata!!!!!

E suo padre,  UN GRANDE PADRE, aveva voluto condividere la notizia con me!!!

Ricordo che gli chiesi scusa, mentre domandavo se avevo capito bene sul fatto, gli chiesi scusa perché a essere così “curioso” potevo sembrare invadente, lui mi disse: 

“Fausto non sei invadente per niente, sappi che questa foto l’ho condivisa con le persone speciali per me e Andri (nome di fantasia)

Ecco, la storia in breve è questa, i dettagli intimi me li tengo nel cuore.

Ora mi chiedo, se avessi rinunciato anche al più piccolo dei miei valori, se avessi accettato quel panino, sarebbe sfociata la grande amicizia con Gio?

E di conseguenza avrei mai conosciuto, quel grande uomo la sua stupenda famiglia? Avrei mai potuto “attingere” alla superba forza di Andry per averlo come esempio nei miei momenti bui? 

A me piace pensare di no! 

Se rinunciassi a ciò che sono e ai miei valori, non sarei quella persona che si merita di ricevere certe foto…..

Sia chiaro, non mi sento e non mi sentirò mai nessuno, migliore di altri o superiore, ma inizio a pensare che se certe cose mi accadono, forse e dico forse, qualche merito lo ho e forse qualcosa di buono l’ ho fatto!

Alla fine, quel panino a me la vita me l’ha cambiata, e poco tempo dopo, a Misano anche uno Spritz lo ha fatto…perché come diceva Galileo Galilei: 

“ Anche negli oggetti “volgari” vi è la possibilità di trovare traccia dell’esistenza di Dio!” 

Ma questa è un’altra storia, che magari un giorno racconterò…

Per ragioni di privacy questo è solo un dettaglio dell’immagine originale

Non so come (ma ho una vaga idea), non so quando ma so che un giorno, non molto lontano, mi “sdebiterò” per tutto il bene che mi hai fatto!

Il giorno di Luciano

LUCIANO
Indossava un tutore, alla mano destra, quella che sarebbe servita di li a breve per firmare, firmare quei documenti che nessuno dovrebbe trovarsi a leggere e sottoscrivere nella vita; si perché di scelte di vita si trattava, vita di qualcun’altro.

Così all’improvviso Luciano (nome di fantasia) si era ritrovato a dover prendere decisioni cosi importanti, lui che al massimo aveva deciso che sugo mettere nei fusilli, oggi doveva chiedersi se tentare di salvare la vita del padre con un gesto estremo o se risparmiare al padre stesso a tutto il resto della famiglia uno proseguimento di stenti e di fatiche.

Luciano aveva le idee abbastanza chiare, sapeva già cosa avrebbe deciso, cosa avrebbe detto ai dottori non aveva mai avuto le idee cosi chiare in vita sua, fino a quando arrivò in reparto, si perché in quel reparto al 5° piano dell’ ospedale, la vita era assai diversa da come la immaginava lui o almeno era una vita “sconosciuta” ai più.

In quel lunghissimo corridoio del 5° piano, che appariva assai più lungo di quello che era in realtà, in alto sopra la porta campeggiava un enorme orologio digitale che alternava data e ora a cadenza quasi logorroica, quasi volesse porre l’accento su ogni singolo minuto passato in questo luogo, a Luciano pareva di sentirla, quella voce che continuava a ripetere “lo vedi quanto sei fortunato a non dover vivere qui dentro?”.

Nel frattempo la vita de decine di persone scorreva lenta e inesorabile in un’intreccio di dolore e speranze, un’anziana moglie spingeva una carrozzina con a “bordo” un vecchio marito,

personaggi che sembravano essere usciti dai cartoni animati dei Simpson dialogavano su quali medicinali ingerire mancava solo la classica frase “libera i cani..” il tutto nell’andirivieni di infermiere indaffarate in mille cose, quasi sembravano formiche operaie durante la stagione dell’approvvigionamento in vista dell’inverno; la più anziana di esse che curava con fare materno il padre di Luciano.

Bastarono qui pochi, ma lunghissimi minuti a Luciano per cambiare idea, perché in quei cinquanta minuti egli aveva apprezzato la vita come non mai prima, decise allora di tentare di “donare” al proprio padre un’ulteriore possibilità, consapevole che di li avanti la vita di entrambi e di molte altre persone sarebbe stata più dura , ma comunque degna di essere vissuta fino all’ultimo e in ogni modo.

Si tolse il tutore, firmò le carte e tornò ad osservare le vite e i momenti che scorrevano inesorabili in un continuo alternarsi di dolore, speranze attese e a volte disilluse.

Poi, trascorse una manciata di ore a Luciano  venne posto un quesito assai più grave, assai più importante e “pesante” a Luciano venne chiesto di decidere tra una fievole speranza e un’ inesorabile quanto devastante certezza… ma questa è un’ altra storia, cosa abbia deciso e perché, resterà per sempre un segreto, nascosto nell’angolo più remoto del suo cuore sommerso da centinaia di ricordi così brutti che non è giusto raccontare.

Furono solo poche ore di quel giorno, poche se pensiamo al contesto di una vita, ma vi assicuro furono ore che la vita, la cambiano davvero.

A mio padre.

19/9/1937 – 16/3/2018

Io NON sono un fotografo

 

Il fotografo professionista pratica la fotografia come professione (per lavoro) seguendo principi etici e legali, volti a soddisfare il committente; il fotoamatore o “fotografo dilettante” invece pratica la fotografia per diletto, per svago, per divertimento, per passione (non a scopo di lucro), molto spesso per documentare o/e per ricordare o produrre ricordi.

Questa in sintesi la descrizione della parola fotografo.Tratto da Wikipedia

Ecco perché io non sono un fotografo, ho provato anche a cercare la definizione sul vocabolario.. Fotografo

Ma niente io non sono un fotografo!

Lei ci crede a questo? A un fuoco inestinguibile che ti divora eternamente.
(Dal film Amadeus)

 

Il vero fotografo è, secondo me,  colui che oltre a essere appassionato di fotografia, passa buona parte del suo tempo a osservare il lavoro di altri fotografi attraverso mostre, libri, convention  e quant’altro è colui che studia la tecnica e magari sa con perfezione certosina come posizionare le luci in uno studio o che posa fare assumere ai propri soggetti è colui che studia la fotografia in tutte le sue forme e in tutti i modi possibili, iscrivendosi magari a una quantità smisurata di canali video per vedere in anteprima l’ultimo tutorial sulla sua materia preferita, la fotografia in tutte le sue sfaccettature appunto.

 

Si può avere un grande incendio nella propria anima, eppure nessuno è mai venuto a scaldarsi. I passanti vedono solo un filo di fumo dal camino e continuano sulla loro strada.
(Vincent Van Gogh)

 

Oppure è colui che è disposto a sgomitare nella ressa tra colleghi per ottenere l’inquadratura migliore e infine è sicuramente colui che sa vendere in primis se stesso e di conseguenza il proprio prodotto.

Io non sono nulla di tutto questo!

Se ti aspetti da me che sappia dirti quale è l’attrezzo migliore, la migliore ottica o l’ultimo ritrovato in materia di luci da studio allora sei nel posto sbagliato.

Io al massimo posso invitarti a leggere questo: Imparare a fotografare

 

L’amore è come un fuoco all’aperto. Può essere appiccato rapidamente, e appena acceso emette un sacco di calore, ma si consuma rapidamente. Perché dia un calore durevole e stabile (con deliziose fiammate di calore intenso di tanto in tanto), devi curare il fuoco con attenzione.
(Molleen Matsumura)

Io di certo saprò insegnarti a come ringraziare ogni volta ogni tuo singolo soggetto, perché sono fermamente convinto che anche il migliore dei fotografi non sarebbe nulla senza la disponibilità (mai scontata) dei propri soggetti a lasciarsi riprendere.

Io sono “solo” una semplice persona, con un trascorso alle spalle (come tutti del resto) un trascorso fatto di delusioni ferite e cicatrici nel cuore, schiavo di un passato che mi rende umile e ferito allo stesso tempo, ferite alle quali però non voglio soccombere e che anzi mi fanno gridare vendetta!

Una vendetta che cerco di mettere con tutto me stesso nello scattare immagini!

Una vendetta che si compie ogni qual volta riesco a creare uno scatto che “combatte” o è agli antipodi di tutto il dolore che ho dentro.

Ecco io sono IO e non sono certamente un fotografo.

Tieni dentro di te un piccolo fuoco che brucia; per quanto piccolo, per quanto nascosto.
(Cormac McCarthy)

 

 

 

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Pensavo fossi stronzo…

Pensavo fossi uno stronzo…..

Tutti i nomi utilizzati in questo racconto sono nomi di fantasia, il racconto è basato su una storia vera.
Ringrazio Luciano, che ha voluto passare con me un pomeriggio intero di chiacchiere durante il quale mi ha fatto partecipe anche di questo racconto.

Era la sera di san Valentino, circa le 22.00, avevamo appena finito di cenare con la pizza presa ad asporto nel vicino locale, Rebecca mia figlia di undici anni esordisce con volto quasi scuro di delusione:

“Papà ma sei proprio cattivo, è san Valentino e non hai preso La Rosa alla mamma!”

La guardo negli occhi, sorrido e le parlo:

“Vedi Rebecca, voglio raccontarti due cose, la prima che devi sapere riguarda un’aneddoto accaduto due giorni fa, erano circa le 23 del 12 Febbraio, non era certo san Valentino, le farmacie come i negozi a quell’ora erano chiusi naturalmente, io e mamma eravamo già a letto da un’ora almeno ma, un terribile mal di testa che aveva colpito stranamente entrambi non ci lasciava dormire, fu allora che decisi di recarmi in cucina, per cercare un’analgesico che potesse dare sollievo a entrambi, chiesi a tua madre lo vuoi anche tu? Lo chiesi nonostante sapessi già che la risposta sarebbe stata si, ok! Risposi stai comoda te lo porto io!

Arrivato in cucina, apro la cassetta dei medicinali prendo la scatola e ahimè mi accorgo che vi è al suo interno solo una pastiglia, l’ultima, non ti nascondo figlia mia che subito ho imprecato!

Ma poi dopo un solo secondo, mi è uscito il sorriso, ho preso la pastiglia, un bicchiere d’acqua e facendo le scale i mie pensieri erano felici, non so perché nonostante fosse solo il 12 di Febbraio, mentre salivo le scale, mi venne in mente la frase buia san Valentino…… arrivato in camera, diedi l’acqua e la pastiglia alla mamma e alla sua richiesta, tu l’hai già presa? Risposi si, l’ho presa giù di sotto. Inutile dirti che dopo pochi minuti, circa quaranta  a dire il vero l’analgesico iniziò il suo effetto e la mamma si addormentò, mentre la mia nottata fu totalmente diversa, ma non è quello che conta……”.

Quello che sto cercando di dirti Rebecca è che:

“Non ho bisogno che sia un calendario a dirmi quando è la festa dell’amore, non ho bisogno di una rosa per sapere quando e quanto sono\siamo amati e non ho bisogno nemmeno di esternare con le parole, quali e quante azioni compiamo ogni giorno in nome dell’amore, tanto è che la mamma non ha mai saputo che quella era l’ultima pastiglia perché il giorno dopo, dopo essere stato in farmacia, mi sono affrettato a sostituire la scatola vuota prima che lei se ne accorgesse, perché Rebecca devi sapere che per ciò che mi riguarda, decido io quando, come, quanto e chi amare e lo faccio ogni giorno non solo il quattordici di Febbraio!”

Lei mi guarda e tutto a un tratto il suo viso da scuro diventa luminoso e esclama senza nemmeno pensarci tanto:
“Papà, pensavo fossi stronzo, ma mi sbagliavo! Ma mi hai detto che dovevi raccontarti due aneddoti e questo è solo uno, l’altro quale è?”
Le sorrido, mentre però inizio a recitare la parte dell’arrabbiato:
“ah si Rebecca, c’è un’altra cosa che devi sapere ma ricordati che alla fine del discorso ti devo sgridare;

l’altra cosa che devi sapere è che, io questa sera avevo in tasca solo 60€ in contanti mentre i bancomat li aveva la mamma, cosi mi sono trovato a scegliere tra se comprare 2\3 rose solo per la mamma o fare qualcosa di, secondo me, più profondo e duraturo di una rosa che tra 2\3 giorni sfiorirà, così ho scelto, ho scelto di fare qualcosa per tutte le persone che amo non solo per una, ho scelto di fare riposare la mamma, di sollevare te e tuo fratello dal vostro incarico serale ho scelto di scrivere un messaggio a tua sorella per farle sentire considerata…… è ho compiuto un’azione che unisse tutte queste cose in un unico gesto, banale ma carico di significato!”

Lei stranita: “E quale sarebbe questo gesto?”
Sorrido! E le chiedo:
“Hai presente le pizze che hai mangiato questa sera?
Avete dovuto apparecchiare? Mamma ha dovuto cucinare?…………..buon san Valentino!”
“Buon san Valentino papà, ma perché mi devi sgridare? Ti prego non farlo, stronzo mi è scappato!”
No Rebecca, non ti sgrido per lo stronzo….. ma bensì perché ti sei fermata alle apparenze………

Tratto da una storia vera.

Questa sera il Drifting “non basta”

Ventitré anni, erano ventitré anni che non accadeva.

Non me lo ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta ricordo solo che ventitré anni sono passati di sicuro, ma questa sera è successo, sono andato a fare spesa da solo, ho preso il carrello ma senza usare la monetina perché io ho il portachiavi a forma di soldo, perché io sono razzista, o almeno così dicono, e il soldino alla fine della spesa mica lo voglio dare all’ extracomunitario di turno che mi aspetta nel parcheggio, l’ho preso e è stato anche divertente correre nella neve fresca appena caduta simulando le sbandate del Drifting, mica avrei potuto immaginare che di li a poco il mondo mi sarebbe crollato addosso.

Entro nel supermercato, accendo il telefono, apro Inote, si perché i tecnologici la lista della spesa la fanno col pc e poi la condividono e subito mi pervade una strana sensazione, non ci faccio caso e mi dirigo verso la corsia degli animali, perché la roba più pesante la devo mettere sotto, spingo a fatica il carrello con una mano mentre nell’ altra reggo il cellulare e di nuovo quella sensazione, arrivo a latticini, si perché la roba che si schiaccia la devo mettere sopra e mi cade l’occhio sulla corsia delle cianfrusaglie ed è li che si ripresenta quella sensazione ma stavolta capisco, capisco e sto male, mi manca, solitamente lei fa spesa, spinge il carrello con meno fatica, si perché lei non è tecnologica e la lista della spesa la usa di carta, anzi, a pensarci bene non l’ho mai vista con la lista della spesa, perché non sarà tecnologica ma quando c’è da curare la casa e la famiglia ha una memoria di ferro e una forza d’acciaio;
mentre lei fa la spesa io ho sempre il tempo di controllare tra le cianfrusaglie l’ultimo tipo di cacciavite, il nuovo set da ufficio (ne avrò presi 50 e non ho nemmeno un’ufficio) o magari qualche accroccrio che può tornarmi utile in fotografia, ma questa sera no, non posso, non ho tempo perché altrimenti nessuno spinge il carrello e non posso andare da nessuno a chiedere:
“hai finito? andiamo ?” e con la malinconia di un bambino a cui viene detto che è l’ultimo giro poi si va a casa e fino all’anno prossimo, alla prossima fiera del prosciutto non si torna a luna park lascio la corsia delle cianfrusaglie e mi dirigo verso quella della pasta, ed è li che ricevo il colpo di grazia, pensando ad alta voce esclamo:”solo gli spaghetti sono integrali non c’è altra pasta?” doveva essere un pensiero, ma il mio maledetto vizio di parlare tra me e me fa in modo che una signora mi senta….

Che dire era pure una bella signora, con forse solo dieci ani più di me, si gira mi sorride ed esclama:
“Gli spaghetti Barilla sono qui!”, chissà cosa ha capito del mio pensiero ad alta voce se la sua risposta è così fuori tema, ma poco importa, quella che per lei doveva essere una cortesia, a me è sembrata una catastrofe!
Mi sono detto:”Devo proprio sembrare un single disperato se ho bisogno di farmi dire dove sono gli spaghetti!”  poi mi guardo la mano sinistra e noto che tra l’altro non porto la fede…
Rispondo alla signora con gentilezza un grazie che in realtà sa di amaro e per non urtare i suoi sentimenti, mi compro anche una scatola di spaghetti Barilla che non avevo di certo preventivato di comprare e intanto ancora amareggiato per non aver potuto “sguazzare” nelle cianfrusaglie, quella sensazione di tremenda solitudine mi pervade, spingo il carrello, arrivo alla cassa, mi manca e sto male.

Tocca a me, e questa volta sono da solo “contro” la cassiera, si perché di solito facciamo a gare se siamo più veloci noi riporre nel carrello la merce o la cassiera a passare la spesa, inutile dirlo, io non sono pratico, io sono da solo e questa volta la cassiera vince, ma il problema è che mi manca….
Erano ventitré anni che non andavo a fare spesa da solo e non mi sono mai sentito così vuoto, penso proprio che da oggi in poi a mia moglie il carrello lo spingo io e  le chiederò di guardare tra le cianfrusaglie insieme a me.

Questa sera, il Drifting non mi basta anzi questa sera in un certo senso il Drifting “lo odio”, si perché il Drifting mi ha aperto il cuore, ma quando vai a fare spesa do solo, un cuore aperto sente più freddo.

Il Drifting e nello specifico quello di Giovanni Dalla Pozza è la metafora della vita,ci da dimostrazione che la vita stessa può regalare grandi cose anche quando sembra vada tutto “storto”, l’importante è che si abbia ben chiara la traiettoria da seguire e il punto in cui si vuole passare (Clip) per arrivare al traguardo che ci siamo prefissati.